Ovvero il fascino della pittura reificata: GIORGIO DI GENOVA
Questa premessa mi è sembrata necessaria per introdurre il discorso su Vito Sardano, provetto
Artista, che ha saputo coniugare alla perfezione la sua creatività con la manualità di homo
Faber. Ed è proprio da questo fertile connubio che è nato il suo linguaggio originalmente
nuovo, che sa far vibrare le corde della fantasia con esiti fascinosamente poetici, ottenuti con
gli oggetti cherchés et sélectionnés (più che trouvés) nell’ambito dell’universo del suo lavoro
di progettista industriale.
Si potrebbe parlare per le opere d’assemblaggio di Sardano di poesia degli ogetti. Poesia che
Sa esprimersi felicemente sia nelle strofe delle composizioni su tavola che nei poemetti a tutto
tondo con la medesima tenuta inventiva e con lo stesso rigore costruttivo; poesia inpaginativa
nel primo caso, poesia tettonica, nel secondo, dove i “totem” oggettuali escogitati nella sua
come non è, nonostante officina mostra Ma, si badi, Sardano non è affatto uno
pittore neodadaista. La sua lingua utilizza, si, termini desunti dal
vocabolario futurista e dadaista, per non dire delle inflessioni informali, concretiste e
costruttiviste, ma la grammatica su cui poggia è fuori di tali tendenze.
E lo è proprio in virtù di una sintassi che di esse riassorbe le istanze di base trasfigurandole
Secondo una particolarissima sensibilità che per immaginazione e per orchestrazione le
trascende nei risultati.
Certo, come ogni lingua anche quella di Sardano ha avuto la sua evoluzione. Solo che in
lui si è verificato un processo inverso, rispetto a quello che ha generato il volgare dal latino.
Il suo “volgare” ha preceduto la maturità della lingua d’oggi: ed esso va individuato nella sua
rivisitazione futurista attuata con gli olii degli anni Ottanta, quando ancora la concitazione,
ora dinamica ed ora sincopata, delle composizioni (e scomposizioni) obbediva più alle pulsioni
dell’emozione che non agli equilibri dei pesi e contrapesi della ratio ideativa, aspetto
quest’ultimo che s’è precisato con l’avvento dell’oggetto sulla scena della pittura.
Credo che tale avvento abbia due matrici. Un sempre crescente bisogno di fisicità, determinato
dalle pratiche del suo lavoro quotidiano e l’incoergibile necessità di sfuggire dal caos reificato.
verbo accadico taqanu (disporre in ordine) e dal conseguente sostantivo teqnu (il disporre
ordinatamente, abbellimento), si comprenderà su quali sostrati ancestrali si fonda il
discorso di Sardano, che è arte, in quanto è frutto di un modo di comporre, mettendo
assieme diversi elementi con un’abilità magica che ricava il suo fascino appunto dal
disporli in ordine, non preordinatamente, com’è nelle macchine: per esempio, nel
computer, che non a caso i francesi chiamano ordinateur.
E valga questo confronto a ribadire quanto asserito all’inizio di questo testo sull’arte di
Sardano, che non rinnega le sue origine artigiane, anzi le esalta, rinverdendo
modernamente l’antico connubio di arte ed artigianato.
Giorgio Di Genova Roma, Maggio 2000
Via internet tutte le strade portano a Monopoli: PIERRE RESTANY
Per le composizioni multimediali di Vito Sardano si può parlare, a buon diritto, di poesia dell’oggetto. Ho vissuto in prima persona, con il Nouveau Réalisme, il fenomeno capitale del ventesimo secolo, l’affermazione della valenza auto espressiva dell’oggetto industriale e della sua virtù concettuale globalizzante, dai ready-mades di Marcel Duchamp fino agli oggetti impregnati di blu IKB di Yves Klein, passando dalle combine-paintings di Rauschenberg. Non posso quindi essere particolarmente sensibile all’attuale percorso creativo di Vito Sardano, poiché esso s’inserisce nel cuore della più attuale e scottante problematica della nostra cultura in totale mutazione: attraverso il trattamento dell’oggetto, è del destino dell’immagine e del ruolo dell’arte nella nuova civiltà emergente che si tratta. Dal punto di vista formale, in primo luogo. La formazione di Sardano si traduce in estrema meticolosità nella composizione, in rigore strutturale nella centralità dell’immagine globale, in esuberanza nella proliferazione della simbologia, in grandissima raffinatezza nell’uso del colore. A prima vista, questa sovrabbondanza espressiva rischia di apparire come il marchio di una visione post-futurista che tende al surrealismo. Ma il feticismo decorativo del dettaglio è ben presto trasceso dalla potenza dell’ordinamento e dalla portata concettuale dell’immagine globale. In Sardano il passaggio alla creazione artistica si è unito ad un’intensa riflessione sulla concettualizzazione semantica della composizione oggettiva.
Ogni struttura multimediale che l’artista Vito costruisce, con il fervore perfezionista di un lavoro ben fatto, diviene di per sé un assemblaggio che s’inscrive nella grande linea storica dell’avventura espressiva dell’oggetto, come hanno fatto i collage cubisti, futuristi o dada, i ready-mades di Duchamp o le appropriazioni dei Nouveaux Réalistes.
Ma questi assemblaggi multimediali sono portatori di un’immagine globale di fronte alla quale l’artista Sardano assume contemporaneamente un diritto e un dovere: il diritto della concettualizzazione ed il dovere della comunicazione. Queste immagini trovano spontaneamente lo spazio per inserirsi nel flusso generale dell’informazione planetaria. Lo spazio di diffusione dell’immagine sardaniana è quello elettronico della televisione e del sito internet: lo spazio della comunicazione globale, della propagazione, della trasmissione, della divulgazione; quello della “via libera alla conquista dello spazio”, quello della liberazione dell’energia vitale.
E’ proprio attraverso lo schermo elettronico del video che si può percepire la portata globalizzante dell’immagine concettuale sardaniana. Dando prova di un notevole “tempismo”, Vito Sardano poeta ispirato dell’oggetto, si trova ormai all’incrocio delle strade o piuttosto al crocevia delle autostrade della comunicazione. Cioè in un contesto ambiguo di centralità incontrastata e quasi impenetrabile, indefinito punto d’arrivo nel quale egli si sente bene. Sceglierà fra la staticità della struttura significante e la diffusione dell’immagine concettuale sullo schermo fluido? O seguirà il mio suggerimento di far coesistere le due cose senza tuttavia sottrarsi alla prova del fuoco telematico? Solo il tempo ci darà una risposta.
Pierre Restany
Milano, Marzo 2002
Traduzione: Nidia Morra
To Overshoot: VALERIO DEHO’
Il tranch o comunque il già vissuto ha la funzione mnemotecnica di conservare l’inutile, tipica operazione artistica, di annunciare il presente, e atraverso la sua critica (la società, i consumi, lo spreco etc.), prefigurare un futuro migliore.
Oggi si potrebbe aggiungere una variabile ecosostenibile, una sorta d’invito a non sprecare e a riutilizzare quello che e’ possibile, nei lavori degli ultimi due anni prenda forma una poetica neobarocca in cui si accentua una torsione della forma, un aggrovigliamento dei materiali che
seguono morbide torsioni, sinuose traiettorie che portano a se stesse, cioè la sua pertinenza alle sfere della sua creazione e non della sua sociologia.
Non c’è nessun senso nei suoi lavori se non esattamente come sono fatti, il tempo impiegato, le associazioni cercati di questi piccoli monumenti all’infinito. E proprio come nella logica barocca non solo i materiali sono portati oltre i loro limiti funzionali e di pregnanza visiva, ma hanno anche un limite interno che viene messo alla prova.
La meccanica, i suoi riflessi, le sue parti minute e frammentarie viene quasi superata e ironizzata in una sorta di rivoluzione umanistica contro la tecnica. Ha scritto con la consueta intellingenza Pierre Restany a proposito dei lavori precedenti: “Queste macchine umanizzate, saturate, di contrassegni sensibili, non sono elementi folcoristici. Impongono rispetto perché segnalano, attraverso i loro quadranti, i loro dischi, le loro rose dei venti, la presenza della sostanza-chiave della comunicazione, l’energia cosmica: quell’energia immateriale che, circolando liberamente nello spsazio, giunge ad animare la nostra sensibilità ed il fondamento di tutti i linguaggi creativi.
Ovvero il fascino della pittura reificata: GUGLIELMO GIGLIOTTI
La mostra personale di Vito Sardano al Castello Carlo V di Monopoli presenta una selezione di opere degli ultimi dieci anni di attività dell’artista pugliese. Il decennio vede a metà percorso una svolta di ordine assemblagistico, che intesse di oggetti prelevati dal quotidiano professionale (Sardano è progettista industriale), la superficie pittorica, eletta precedentemente dall’artista a palestra di briose fantasmagorie cromo-formali. Sono una sorta di variopinti mandala, eccitati dall’incastro variegatissimo di frammenti geometrici, d’allusione meccanomorfa è distanza, quindi, neofuturista. Nel ’95, tuttavia, la pittura prende corpo, si “reifica” secondo Giorgio Di Genova, che presenta la mostra in catalogo, sulla scorta dell’immissione di elementi quasi sempre metallici, d’assetto rigorosamente sempre geometrico, desunti dal mondo del lavoro industriale. Sono dischi, barre, guanti, che un sentimento architettonico della superficie giustappone in chiave paratattica e simmetrica sul piano, dipinto a pastose tinte prevalentemente azzurre e gialle, ottenendo il compimento di un’idea di opera come macchina policroma e pitto-oggettuale. Ad armonizzare i possibili riferimenti al futurismo (Depero più di tutti), al dadaismo, all’informale degli impasti di base, al costruttivismo immaginativo, vi è in Sardano un senso ludico, d’ammiccamento ironico, e comunque divertito e divertente, da cui dedurre un atteggiamento parodistico nei confronti della meccanicità pervasiva dei nostri giorni. In questa ottica, sul versante tridimensionale, Sardano presenta complessi totem polimaterici, pregni di quella ironica pomposità che garantisce il giusto distacco e l’equilibrato giudizio riguardo all’idolatria elettronica di un mondo in cui qualcuno ancora reclama il gusto della manualità artigianale
Mostri di corde schiume e dischi: PIETRO MARINO
SARDANO – Torna ad esporre nella sua città, Monopoli, Vito Sardano, l ’ex operaio folgorato sulla via dell’arte a trent’anni. Adesso sta sui sessanta. Ma continua a proporre invezioni combinatore sul filo di una sorta di avanguardismo. Maniera che il suo presentatore, Valerio Dehò definisce giustamente neobarocca e ludica, all’insegna di un “primitivismo attualizzato”. Sanno infatti di arazzi, di totem e di trofei barbarici le sue composizioni con grossi cordami marinari in bianco e in nero che si avvolgono attorno a dischi e chip di vario genere e a cerchi e triangoli fatti di borchie bottoni sferette. Emergono con rutilante oggettualità da spalmate gessose che sanno di panna montata, o s’intridono di “colori zuccherini” con “manipolazioni e interventi quasi da alta pasticceria” (cito sempre Dehò). Giochi di contrappunti fra ritmi geometrici primari e inserti oggettuali, fra schiumose colate di bianco e squilli di rossi caramellati, gialli dorati, azzurrini da alchermes. Invezioni decorative spinte sino all’enfasi visionaria, che fa emergere dalle astrazioni tattili allucinazioni di possibili mostri, animali allegorici, e infine una energia inquieta dietro gli eccessi del fantasticare.
Reperti e corde diventano arte: ANTONELLA MARINO
Per la sua personale allo studio d’arte Fedele di Monopoli, Vito Sardano gioca in casa. Dopo numerose trasferte per lavoro, dopo una serie di riconoscimenti ed esposizioni nel resto d’Italia e all’estero, l’artista Monopolitano presenta nella sua città l’ultima produzione, in una mostra correlata da un catalogo con testo critico di Valerio Dehò. Sardano definisce “multimediale” questa serie di complessi di lavori, che uniscono l’amore originario per la pittura (rivelato dagli accostamenti del colore anche laddove dominante è il bianco) e l’assemblaggio plastico di oggetti in moderni “bassorilievi” o strutture scultoree tridimensionali. Cerchi e frammenti di tubi in plastica, grosse corde di tipo marinaro, circuiti elettronici e dischi da smerigliatrice si aggregano in nuovi ordini formali, bloccando le tensioni in composizioni simmetriche talvolta speculari. Nella predilezione per il prelievo di reperti industriali si potrebbe vedere un rimando alla sua esperienza giovanile come tornitore. Mentre le corde evocano il periodo successivo, in cui viaggiò molto imbarcato su una nave. Ma come sottolinea Dehò, pur collocandosi sul solco lungo di una poetica dell’oggetto recuperato che da Duchamp al New dada e Nouveau Realisme ha fatto molti proseliti, questa ricerca non è motivata da provocazioni avanguardistiche né da messaggi di tipo politico o sociale. E’ mossa invece soprattutto da un’esigenza estetica interna allo stesso fare creativo: dal bisogno, cioè, di sperimentare forme più attuali di “bellezza”, tra componente ludica, fascinazione materica e bricolage colto
Il sudore che sublima: LINO ANGIULI
Chi ha avuto l’opportunità di seguire nel tempo l’evoluzione della vocazione artistica di Vito Sardano può oggi – nell’occassione di questa tappa espositiva – evidenziare piuttosto agevolmente alcuni caratteri peculiari del suo lavoro e alcuni tratti emblematici del suo tragitto, che proverò qui ad interpretare come i sintomi di quella che a me pare una sorgiva e pressante libido cosmogonica, portata lentamente e faticosamente a compimento.
Siamo ai primi anni Ottanta, quando Sardano, visitato da un febbricitante e totalizzante dàimon, si lascia andare al furore di una complessa destrutturazione che egli razionalizza all’insegna di un’ispirazione neofuturista. E’ come se, all’inizio dell’avventura artistica, egli abbia avvertito il bisogno di scomporre l’universo, saggiare e sfidare la vertigine del caos pulsionale, entrare nelle pieghe della realtà, individuarne le unità di misura formale; come se abbia avuto bisogno di forgiare l’alfabeto primario del discorso che sente di volere potere dovere esprimere a tutto tondo.
Una volta compiuto questo viaggio iniziale e per certi versi iniziatico, una volta smontato pezzo pezzo l’orizzonte che lo abita e lo circonda, egli comincia a portare alla luce i materiali reperiti,
scorie grumi pepite e quant’altro, d’ora in poi cercherà di sistemare in termini sempre più plastici e scenografici. A poco a poco, l’accanimento scompositivo cede il passo a un disegno di equilibrio compositivo; la scansione dello spazio si arrende al bisogno di riorganizzare visibilmente, tattilmente, una compatta e corposa weltanschauung. A questo punto, di fronte alla progressiva urgenza di espulsione ed esplosione, non può bastare più la tela; non può bastare più l’ossessiva presenza del triangolo (parola d’ordine ed epifanico file rouge che marca il territorio espressivo); non può bastare più una tavolozza ordinaria. Mano a mano che il caos viene a galla e si va strutturando in cosmos, prende corpo una dimensione materica che necessita del cerchio, dell’irruenza cromatica, della gestualità performativa, per consentire all’artista di esprimere pianamente il proprio pulsante bisogno: un bisogno che, grazie alla sua natura cosmogonica, appunto, lo conduce per forza di cose a dinamizzare la superfice del supporto tradizionale onde muovere alla conquista dello spazio con manufatti sculto pittorici e ambiziose installazioni.
Ma la qualità che mi spinge ad apprezzare la sua vicenda, al di là delle valutazioni critiche e degli
analisi specifiche che essa pur merita e che non appartengono alla mia competenza, è quella che riguarda la relazione tra arte e vita: una relazione importante su cui voglio mettere un accento particolare. Sardano – come molti sanno e come tutti devono sapere – era un operaio specializzato
addetto alla saldatura quando ha incontrato una salvifica musa che lo ha sottratto all’alienazione
della serialità comportamentale e gli ha offerto la terra promessa della creatività.
Orbene: tutto ciò non può non fare la differenza tra chi utilizza artisticamente i materiali che il nostro modello di sviluppo accantona e nasconde al margine e chi, invece, recupera gli scarti del
proprio sudore e ricicla in prodotto d’arte i resti della propria fatica quotidiana (dico la fatica del corpo e della mente, affatto metaforica, quella – cioè – che dat panem). In questo difficile transito dalla vita all’arte, a me piace pensare che i dischi-smeriglia abrasi fino all’osso, le bobine, gli elettrodi, gli ugelli, le boccole le cerniere, i fili metallici costituiscano il vocabolario con cui la vita
parla di sé attraverso l’arte, e non già il contrario.
I simboli della condizione professionale, per quanto non sufficientemente valorizzati dalla cultura ufficiale, non sono rimasti fuori dalla porta che apre al mondo della produzione artistica, ma hanno
chiesto e strenuamente ottenuto diritto di cittadinanza all’insegna di un’opzione interessata a produrre, tra arte e vita, un fertile interscambio senza fratture e senza eccessive mimesi. Così, grazie
a un suo “addetto” che ha saputo far fruttificare i propri talenti e impegnare i propri sogni,
l’industrialesimo ha potuto consentirsi, malgré sai, una inaspettata eppure edificante sublimazione.
Così l’umile artifex è riuscito a realizzare la metamorfosi del suo “manufare” senza pagare il tributo
della rimozione, grazie alla necessità e alla coerenza di una incontenibile, incontentabile, passione
che è nata e che trae continuo alimento dal più profondo dettato pulsionale.
Lino Angiuli, Cosmogonie, Ed. C&C Cianciola srl, Monopoli 20
Il linguaggio compositivo: PAOLO LEVI
Il linguaggio di Vito Sardano è criptico. E’ tipico comunque, degli alchimisti. La sua scrittura è pittura, e segno, è struttura compositiva. Si avverte l’instintualità compositiva, una sorta di gestualità della propria anima saggia. Vengono a galla dal suo incoscio una serie di simboli, uno diverso dall’altro, che all’osservatore non è dato assolutamente la possibilità di decodificazione. Cosa rimane allora? Altre cose importanti, come il disegno della struttura, l’armonia degli elementi, il colore, e poi la gioia di interrogarsi.
Il fascino della pittura reificata: COSIMO LAMANNA
Correva l’estate del 2000 quando l’artista Monopolitano Vito Sardano, con una personale esposizione al Castello di Carlo V, si propose alla sua città di d’origine come un artista di livello internazionale, “Il fascino della pittura reificata” fu il tema dato all’esposizione e al relativo catalogo dal critico Giorgio Di Genova secondo il quale “per le opere di assemblaggio di Sardano si potrebbe parlare di poesia degli oggetti”. Una personale ricerca artistica, quella del Monopolitano Sardano, intrapresa tra le mura del suo piccolo studio che, dopo una parentesi figurativa, si è incentrata principalmente sull’oggetto industriale e sulle sue possibili evoluzioni concettuali. “E tra queste mura, circondato dalle le mie opere in perenne evoluzione, che il fuoco della mia ispirazione artistica – dice l’artista – si esprime a partire dall’iniziale ricerca dei materiali di base e la loro progressiva elaborazione, fino all’emergere dell’immagine globale”. L’originalità dell’opera sardaniana non poteva sfuggire all’attenzione e allo sguardo severo del critico francese Pierre Restany che, nella presentazione del catalogo “Via internet tutte le strade portano a monopoli” afferma “il dualismo artista ha così creato in Vito Sardano un meraviglioso paradosso fra il costruttore di oggetti d’arte, la cui destinazione è la galleria o il museo, e l’emittente di immagini concettuali, destinate ad inserirsi nel flusso elettronico della comunicazione”. Quella di Sardano è una sfida all’era multimediale, una sfida tendente a dimostrare che la creazione artistica non è destinata a scomparire con il diffondersi a livello globale. “Penso che oggi sia insensato cercare di sottrarsi alla prova del fuoco televisivo – afferma Sardano – ed è per questo che il mio intento è quello di comunicare e nello stesso tempo di far comprendere la dicotomia tra artigiano artista, tra manualità e ideazione, e il significato che l’oggetto industriale ha assunto all’interno della mia personale produzione artistica che, come vedremo, si concretizza nelle due originalissime forme della sculto-pittura e della scultura”. Oggetti industriali, supporti strutturali, performance, materia, colori e applicazioni sono supporti lessicali basilari all’interno della ricerca artistica sardaniana, nella quale si coniugano magistralmente l’abilità e la creatività propria dell’artista. E’ così ci troviamo di fronte a tecniche quale quella dello sfilacciamento, una sorta di materializzarsi dell’opera a partire da uno stato di caos primordiale, il fluido delle idee del Sardano appunto. L’applicazione ragionata degli oggetti industriali sulla struttura e il momento in cui l’artista dà senso alle sue opere che diventano espressione ragionata e non frutto di mera casualità, motivo per cui a buon diritto si sposano con l’età multimediale: non a caso anche i titoli delle opere quali “suprema dimensione”, “profondo concentrarsi del pensiero”, “estensione e limitazione”, risentono di questo humus multimediale, anzi sembrano quasi nutrirsene. Vito Sardano, intanto, continua la sua personale e originale ricerca che, nata dall’io artistico e passata attraverso la rivisitazione di correnti artistiche quali cubismo, surrealismo, dadaismo e futurismo, tende alla ricerca della suprema dimensione, in attesa di proiettarsi, non solo virtualmente, verso altri lidi
Guida ragionata alla ricerca del padre: DONATO CONENNA
La tentazione è forte, come forte è l’impatto che l’osservatore subisce a fronte delle composizioni di Vito Sardano. E’ forte la tentazione di andare, come sempre accade nella analisi critica, immediatamente “alla ricerca del padre”, cioè vedere nei segni e nei colori se esistono le condizioni per una risalita al segmento primario, alla genesi ideografica, alle scaturigini della luce che genera, attraverso i colori, l’intricato rovello geometrico che è sulle tele. Altrettanto forte è l’impatto emotivo “a fronte” (e forti ne sono le conseguenze concettuali che ne derivano, anche in un osservatore come chi scrive, tetragono alle emozioni) che suggerirebbe – ma è inane sforzo – di trovare il punto di orientamento nel procelloso accatasto di forme, tale da condurre ad una ragionevole, se non proprio ragionata, “guida” al capire chi è Vito Sardano e soprattutto cosa vuole (dire) con questi cataclismatici composti. Certo, andare “alla ricerca del padre” sarebbe non difficile (sic!), se Sardano fosse stato anche solo per auto cooptazione, per adesione astorica, allievo di Klee o di Kandinskij; se per mera ipotesi avesse vissuto non il tempo, ma lo spazio di un mattino di quel 1913, quando Malevic e i suprematisti “decisero” l’avvento dello strutturalismo e la vittoria della materia tattile e malleata, conosciuta ormai in ogni ascoso ganglo molecolare, sullo spirito, destinato vièppiù ad una sorta di rarefatta, controvertita immanenza. Ma sarà sufficiente affermare che Vito Sardano abbia attraversato, da discendente “in exprit” le aree stagioni compositive di “K & K” e ne sia rimasto talmente attratto e suggestionato da continuare, lui, in nome dei padri, la generazione di “forme libere nello spazio”, levitanti in una sorta di astrale agglutinazione? Non rimangono, per una “guida ragionata alla ricerca del padre”, che alcune paradossali esplicazioni, volte più al futuro dell’arte entro cui più giustificato è il compiersi concettuale di Sardano, che non ad infruttuose disamine passatiste. La prima “convenzione-convinzione” del critico è di carattere metodologico: inutile inseguire l’interrogativo principe “che cosa significano” queste composizioni. Le risposte da dare sarebbero una e mille: la voluttà descrizionale di possibili macroscopie, il viaggio nell’infinitamente atomico, il preconizzare l’esplosione di una congegnata (ed ormai – giorni nostri – imperante) realtà virtuale il cui tutto geometrico ritorna, come nella nemesi dell’uomo sul computer, in un ordinato caos… Ma le dieci, cento, mille “situations” interpretative non farebbero che grave torto alla libertà immaginativa del fruitore di queste opere e, soprattutto, alla sua potenzialità, appunto, di fruizione. A cento anni giusti dall’invenzione della psicanalisi “non c’è più diritto per nessuno di pensare per qualcuno” (Lacan). Quindi a fronte delle formali – informalità di Vito Sardano, al cospetto della areale fisicità delle sue strutture, nella piena di questa dirompente staticità delle sue geo-grafie, attraverso il vetrino di un pur gigantesco microscopio elettronico che ci offre morfologie altrimenti inimmaginabili, l’osservatore anche più attrezzato avverso alle emozioni non può che alzare le mani e rimettersi alla “più libera libertà interpretativa”. E’ una rinuncia, è un limite, è vero. Ma è anche un prendere atto che Vito Sardano conduce una operazione talmente propria (e qui l’attributo va inteso come un francesismo; talmente di pulita proprietà) da non aver bisogno di padri, putativi o no
Il fascino della pittura reificata: LAURA TURCO LIVERI
Una profonda vocazione artistica, a partire degli anni Settanta, spinge Vito Sardano a dedicarsi alla studio della pittura e della scultura. “L’immaginario di Sardano appare tutto proteso ad un ricongiungimento con la realtà: di qui deriva la necessità fisica e tattile della sua manipolazione d’oggetti anche nello spazio della pittura, spazio che governa con un ordinamento derivante della ratio geometrica” scrive di lui Giorgio Di Genova, autore con Pierre Restany dei testi in catalogo (Bora). In questa personale (a cura di Giovanna Foresio) Sardano ha presentato una visione completa della sua ultima produzione con una trentina d’opere la “Suprema Dimensione”; elaborati pittorici multimediali, le sue sculture cioè i suoi “monumenti”, le sue composizioni su carta. Pierre Restany definisce le sculture multimediali come “dei dispositivi di comunicazione elettronica via etere poeticamente travestiti, delle antenne paraboliche che vestono il traje de luz, il vestito di luce dei toreri spagnoli. Impongono rispetto poiché segnalano, attraverso i loro quadranti, i loro dischi, le loro rose di venti, la presenza della sostanza-chiave della comunicazione, l’energia cosmica, quell’energia vitale di cui esse sono gli attrattori. Contemporaneamente alla mostra romana della Galleria Vittoria, Sardano ha esposto al Museo d’arte delle Generazioni Italiane del ‘900 “G. Bargellini” di Pieve di Cento una quindicina di opere multimediali, anch’esse presentate in catalogo da Restany e Di Genova, che ben documentano il linguaggio dell’artista originalmente nuovo ottenuto con oggetti cercati e selezionati nell’ambito del suo lavoro di progettista industriale. Infatti Sardano (Monopoli 1948) ha sì studiato disegno industriale ma, a partire degli anni settanta, da autodidatta si è dedicato alla pittura ed alla scultura assecondando una profonda ed incontenibile vocazione.
L’anima della vita moderna: MISCHEL BERCHE’
Non sempre la constatazione dell’esistenza di un oggetto visibile tangibile coincide, con la stessa evidenza, con una sua interpretazione autonoma, distinta. Come, per esempio, se a ogni forma corrispondesse una capacità o funzione proiettiva, secondo un codice fisso. Pur ammettendo un grado di rifrazione, di suggestione emozionale, di “alone” consustanziale a certi oggetti e forme in contrapposizione ad altri oggetti e forme (come, insomma, se vi fosse una sorta di partito preso delle cose verso uno sbocco ontologico separato e circoscritto), quasi che fosse inevitabile distinguere in modo assoluto fra elementi razionali e affettivi, geometria e non-geometria, mimèsi e astrazione, concettualità e “lirismo”, appelli al senso e appelli allo spirito. Che dipenda da Duchamp non c’è dubbio. Ma che contenga esattamente le stesse cose non è vero, o è vero come riflesso, poiché altro, o per meglio dire una serie estensioni, si suggerisce attraverso un linguaggio. A parte il peso concettuale di ciò che è assente, e che l’osservatore, nel ricordarlo, non potrà ignorare. “L’oggetto” è display, televisione, computer, guanti e dischi. Ciò che espone, esponendosi al modo dell’assemblaggio, è un meccanismo, subito evidenziato dal tratto che delimita e segnala un percorso, nel quale si evincono immagini globali, che non è solo dato per ragioni funzionali se Sardano si preoccupa di sezionare per mostrare un varco che vorrei leggere anche come metafora. Metafora di un aprirsi o sprofondare o comunque proseguire “oltre” e “al di sotto” di una superficie che per il dominio del ver-bi-gia-ro-ble: i cinque colori che danzano nell’iride, con le meraviglie degli impasti che rispondono alee esigenze della comunicazione adeguatamente espressa. Gli stessi colori, ai quali sarebbe eccessivo assegnare valori stereotipi, finiscono con l’assumere significati o suggerimenti più effusi ed emotivi di quelli puramente plastici, formali, a cui sembrano obbedire. Sebbene non sia indispensabile una correlazione stretta di tipo bianco/vuoto, sfera/fuoco, ruota/sole, il fatto che il poliedro introduce un aspetto alchemico che coinvolge anche le altre forme. Inoltre i colori, si possono interpretare come indizi di una serie di passaggi “elementari”, con forza sul processo fuoco_purificazione secondo qualche significato esoterico. Che “l’oggetto” di Sardano culmini in un arcobaleno appare a questo punto di una logica estrema e conseguente, senza bisogno, peraltro, di citazioni bibliche dirette, essendo già così esplicita la conformazione a cupola, o tempio, e un’idea di apparizione sorgente. La tentazione, che richiedersi fino a che punto lo spostamento di Sardano da una pittura caotica e densa accumulazione umorale (con tutte le connessioni neo-realistiche, informali, concettuali, ecc,) a un arte di tipo costruttivista, sia uno spostamento reale, e non una variazione formale, un assedio e avvicinamento con strumenti diversi, un costante esercizio di analisi e riproposizione non dello stesso “oggetto” ma dello stesso problema. Se la caratteristica saliente messa in luce dall’incisione di Duchamp era che il soggetto “non sta facendo nulla con tutti questi strumenti intellettuali o manuali”, la caratteristica saliente di una parte almeno del lavoro di Sardano si direbbe essere invece proprio una riorganizzazione e un uso dei suoi strumenti. E non a caso non si tratta, per Sardano, di una più o meno mimetica restituzione in termini nuovi di una sintesi simbolica, essendo troppo chiari, se non altro, la funzione dell’ironia e il gusto del gioco, e quindi l’evidenza di una attualità, con caratteri ontologici (ed evocativi, perfino in senso “lirico”) esposti in modo che sia il metodo ad assumere il ruolo tematico e visivo centrale. Tanto da potersi supporre, nel movimento di andata e ritorno che tutta l’opera manifesta dai primi agglomerati materici dei più disparati reperti fino al desiderio successivo di un ordine, la rappresentazione inesausta di una probabile “organicità” di tutte le forme. Ovverosia un processo di oggettualizzazione delle materie e forme originarie e caotiche da organismi a emblemi del congegno stesso che li muove. Emblemi, forme, passati da uno stato all’altro non per perdita di una valenza originaria e “primitiva”, ma per assunzione di tale valenza in un codice linguistico diverso, che malgrado le consonanze con un’arte “colta” mantiene viva la fase iniziale. Quella del mito. Che ricompare nel rito con multimedialità attraverso una implicita necessità di “divina proporzione”, giustificando poi la malinconia come segnale della perdita, o della inattingibilità. Da cui, appunto, l’esposizione di un metodo: quello stesso con cui si raccordano la luminosità “plastica” e per contrasto-esimilitudine il congegno di riduzione formale dello spettro cromatico ver-bi-gia-ro-ble. Operazione ricostruttiva di un’unità che apparirà non solo per il rimando a una precisa pratica dell’arte, ma, se non soprattutto, per l’allucinata levigatezza e rigidità degli elementi in funzione evocativa. Ed è in questo senso, credo che la ripetizione si mostra come ritualità, mantenendo intatta la suggestione magica dei gesti e degli oggetti mostrati nel loro essere, e nel loro essere usati.
Cosmogonie: MARTA MANZONI
Una profonda vocazione artistica a partire dagli anni 70, spinge Vito Sardano a dedicarsi allo studio della pittura e della scultura; negli anni ’90 si affaccia una nuova emozione espressiva, una nuova ragione compositiva che realizza l’avvento dell’era degli oggetti, quella che Giorgio Di Genova chiama “Pittura Reificata”. “La formazione di Sardano si traduce in estrema meticolosità nella composizione, in rigore strutturale nella centralità dell’immagine globale, in esuberanza nella proliferazione della simbologia, in grandissima raffinatezza nell’uso del colore” scrive Pierre Restany, teorico francese del Nouveau Rèalisme, che riserva a Sardano un posto all’interno di tale movimento. Il suo essere artigiano-artista e il suo simbiotico rapporto con l’oggetto e con la macchina lo portano a inserire nelle sue pitture elementi fisici (pratica dadaista) che sottopongono tutta la realtà ad una critica corrosiva, in risposta all’esigenza interiorizzata dell’ordine. La composizione acquista così equilibrio, la pittura diventa tattile e approda in modo naturale alla scultura, anche attraverso la realizzazione di imponenti “totem postmoderni”; le sue sculture multimediali assolvono perfettamente il compito che l’arte contemporanea si ripropone: non rappresentare, bensì comunicare, trasmettere. La fecondità della sua produzione è testimoniata dalla partecipazione alle più prestigiose rassegne d’arte nazionale e internazionale: si segnalano in particolare appuntamenti a Bari, Roma, Milano, Firenze, Pisa, Bergamo, Ferrara, Innsbruck, ecc. In questa mostra personale l’artista presenta una ventina di opere tra elaborati pittorici e sculture che danno una visione completa della sua ultima produzione.
Gosmogonie: PASQUALE RAIMONDO
La Galleria Spaziosei assurge così al ruolo di vetrina del sentire artistico regionale e nazionale aprendosi nuovamente al pubblico con una nuova serie di esposizioni organizzata col patrocinio della Regione Puglia della Provincia di Bari e la città di Monopoli. Questa volta a farla da padrone nella mostra curata da Mina Tarantino saranno le sperimentazioni del famoso Vito Sardano, che a partire dagli anni settanta si è dedicato allo studio della pittura e della scultura approdando negli anni novanta sui lidi di una nuova emozione espressiva, una nuova ragione compositiva che realizza l’avvento dell’era degli oggetti, quella che Giorgio Di Genova chiama “pittura reificata”. L’inaugurazione prevista per il prossimo sabato, 13 maggio alle ore 20, apre le porte della galleria ad una produzione di estrema meticolosità compositiva, solcata dal rigore strutturale vissuto nella centralità dell’immagine globale in un’esuberanza di simboli, lungo raffinati tecnicismi nell’uso del colore, come ha scritto nel Pierre Restany, teorico francese del Noveau Rèalisme, riservando a Sardano un posto all’interno di tale movimento. Il simbiotico rapporto con l’oggetto e con la macchina portano Sardano ad inserire nelle sue pitture elementi fisici, di derivazione dadaista, che sottopongono tutta la realtà ad una critica corrosiva, in risposta all’esigenza interiorizzata dell’ordine. I suoi “totem postmoderni”, le sue sculture multimediali assolvono perfettamente il compito che l’arte contemporanea si ripropone: “non rappresentare, bensì comunicare, trasmettere”. Il catalogo ha una presetazione critica di Lino Angiuli, poeta e scrittore, e del critico d’arte Giorgio Di Genova.
Guanto d’Artista: PIETRO DE GIOSA
Una stetta di mano col Guanto d’artista Guanto d’operaio, di chi maneggia metalli, frese, torni, carpentiere di una fabbrica che produce sogni e immagini a tre dimensioni. Vito Sardano (presente all’ultima Expo Arte di Bari) è l’artista – operaio di Monopoli che con materiale di scarto del suo lavoro abituale intreccia un rapporto quotidiano di ricerca, quasi a purificarsi dai fumi dell’officina, dagli acidi, dalle scintille di fuoco. E’ la tecnologia-rifiuto che risorge a vita nuova, su un supporto dipinto che si anima improvvisamente di figure spaziali e temporali. Il riciclo è perfetto, perché Sardano non dimentica che tutto ruota e gira intorno ad un punto fermo, uno zenit altissimo che muove l’universo e le umane cose. Le composizioni multimediali che da qualche tempo propone saranno pure ampère e sistemi Kondor-globe, nitriti di velocità e punti d’arrivo indefiniti: ma sono soprattutto comunicazione di arte e vita. Perché un artista non dimentica mai da dove viene e dove va.
Labirinto strutturato: PEDRO FIORE
Vito Sardano è un “laberintero” che si muove all’interno di una dimensione popolata di simboli mitopoietici e geometriali. La sua assimilazione di certi valori estetici delle Avanguardie storiche (futurismo surrealismo), gli ha permesso di costruirsi un suo linguaggio strutturale ed espressivo nell’ambito delle odierne proposte dell’avanguardia. E in tutto questo percorso problematizzante il suo processo stilistico è andato ampliando l’originalità della sua iconologia, dei suoi valori: dal dipinto onirico-figurale Lo spavento (Autoritratto) del 1982
(bidimensionale, olio su tela) alla serie di ricerche pittoriche, tridimensionali e multimediali nella
loro matericità cromatica equilibrata, timbrica, castigata dagli inizi degli anni 90.
Lo possiamo verificare nella problematica che lo ha portato a questa sua attuale, direi, “Pittura-
struttura”. Fra altre opere, per citarne qualcuna, ricordo qui la recente Via libera: conquista intensa
dello spazio n.3 del 1998 (cm116 x 116 x 120). Già nel suo periodo precedente – basato su “accumulo” metamorfico dell’immagine – la “rappresentazione simbolica della realtà” – appariva come una sorta di labirinto di immagini e colori”.
La contaminatio fra morfologie organiche (figurali) e morfologie geometriali (una “simbiosi” vicina
al fantastico) avveniva infatti per un “accumulo” dell’iconologico. A poco a poco l’artista – era logico supporlo nella sua divenirale evoluzione – incomincia, ancora in modo embrionale, la “conquista dello spazio virtuale”. Lo si vede ormai nel suo Autoritratto del 1985. La visione di Sardano è passata quindi da un iniziale “spazio rappresentato” a quello di uno “spazio struttura” aperto. Oggi il suo è appunto un “labirinto strutturato” dove l’ordine geometriale del contesto – in una dimensione simbolizzante – riunisce le poralità dei segni, delle forme, del colore: tutto avvolto da una magica semantica. Ricordando il mitico antenato Dedalo che lo edificò a Creta, Sardano potrebbe dire: “L’uscita dal mio labirinto è nella mente e nella emotività di tutti: basta decifrare i simboli”. Quasi una ipotetica risposta di Borges. E in questo suo “rituale del mistero”, infatti, le sequenze del cerchio, del triangolo e del quadrato, soprattutto (l’interazione tra gli opposti: linearità e curvità) costituiscono una chiave importante per le interpretazioni degli enigmi dell’opera. Siamo dunque nella “dimensione della magia, dei sogni” dove l’inconscio crea le sue visioni di uno “spazio-tempo soggettivo”: una realtà parallela a quella fenomenica ma generata dall’irrazionale. L’interpretazione dei sogni di Freud, l’Inconscio collettivo di Jung, il linguaggio strutturato di Lacan sono appunto eccelsi tentativi per “definire” l’indefinibile: il mistero: l’inconscio: questo “fantasma” che vive in noi come un ineluttabile sconosciuto. Sardano lo sa. Sematicamente, il suo “labirinto strutturato” nasce dalle visioni dell’inconscio ma si manifesta poi, come visualità interattiva, attraverso progettualità concettuali.
Pedro Fiori, Il labirinto strutturato di Vito Sardano, Flash Art, Ed. Giancarlo Politi,
Milano 1998
Ma chi parla di overshoot: PATRIZIA GENTILE
Vito Sardano, affermato artista monopolitano, presenta nella sua città natale una ventina di opere, frutto degli ultimi due anni di lavoro, dal titolo “To Overshoot”. La mostra ospitata dalla Galleria d’arte Fedele dal 20 dicembre 2008 al 31 gennaio 2009, costituisce un ulteriore passo in avanti nella carriera di Sardano, che sta riscuotendo consensi e successi sempre maggiori fra pubblico e critica. L’esposizione, il cui titolo allude ad un colpire che va al di là del bersaglio, un andare oltre superando gli obiettivi, ha al centro lavori polimaterici ricchi di significati e di forme complesse. In proposito scrive nel catalogo il curatore della mostra, Valerio Dehò: “nell’immaginario del riuso dei materiali è insita un’idea di futuro che è nello stesso tempo nostalgia del passato. Il trash o comunque il già vissuto ha la funzione mnemotecnica di conservare l’inutile, tipica operazione artistica, di annunciare il presente, e attraverso la sua critica, prefigurare un futuro migliore”. L’arte polimaterica, che sostituisce la realtà dipinta con la realtà della materia, attraverso l’introduzione di materiali anomali nell’opera pittorica, nasce nel clima avanguardistico degli inizi del Novecento. Nonostante ciò, l’arte di Sardano, ricorda Dehò, non ha parentele col Futurismo o col Dadaismo, essendone lontana: essa segue la direzione di una ricerca figurativa a cui tutto si piega. “Sardano – aggiunge Dehò – è uno che mette in ordine le idee attraverso quest’interferenza tra gli oggetti d’uso, fra cui i suoi amati dischi da smerigliatrice. Non è un cantore del mondo meccanico, il suo futuro è dolce e colorato. Sembra che nei lavori degli ultimi due anni prenda forma una poetica neobarocca in cui accentua una torsione della forma, un aggrovigliamento dei materiali che seguono sinuose traiettorie che portano a se stesse”
Le forme dinamiche di Vito Sardano: LORETTA PALMITESSA
Dal 6 al 20 febbraio ha avuto luogo presso la Galleria “LA NUOVA VERNICE” a Bari, la personale del pittore monopolitano Vito Sardano. Reduce da numerose rassegne, conseguito premi importanti grazie alla originalità e alla curiosità che suscitano i suoi dipinti. L’artista ha affrontato il pubblico barese che in precedenza aveva già apprezzato le sue opere. Sardano si cimenta ormai da dieci anni nel campo dell’arte e rappresenta con sensibilità geometrica e numerica il più moderno movimento artistico: il futurismo. L’autore, che ai principi della sua carriera sottolineava con toni accesi contrastanti le forme, si è presentato rinnovato raffinando le tecniche e aderendo alle forme dinamiche con colori morbidi, lasciando più spazio alle emozioni e alla sua sensibilità eccentrica. Le sue espressioni su tela hanno interessato illustri personaggi del campo dell’arte e della cultura, sempre più attenti ai messaggi che l’autore intende far trasparire dai suoi dipinti.