Testo critico di GIORGIO DI GENOVA
VITO SARDANO, ovvero il fascino della pittura reificata
C’è chi crede che col progredire dell’era tecno-elettronica l’arte sia destinata a scomparire.
Io, consapevole che tali previsioni sono state avanzate sin dalla scoperta del dagherrotipo
(1839) e ripetute ad ogni scoperta della moderna tecnologia, non sono tra questa schiera.
L’arte è una prerogativa dell’uomo. Pertanto, come il computer ed internet non
prenderanno il posto dei libri, ma li affiancheranno soltanto, altrettanto averrà per i manufatti
dell’arte, che continueranno senza alcun dubbio ad essere affiancati dallaxerox arte, dalla
computer art, dalla video arte e da tutti gli altri prodotti più avanzate e sofisticate tecnologie,
senza mai prenderne definitivamente il posto.
Infatti sono persuaso che la partita del futuro non si gioca sul tavolo dell’azzeramento dell’arte,
bensì sul tavolo dell’arricchimento dei suoi linguaggi e media espressivi. Inaltre parole l’homo
faber non sarà ucciso dall’homo technologicus et electronicus.
Questa premessa mi è sembrata necessaria per introdurre il discorso su Vito Sardano, provetto
Artista, che ha saputo coniugare alla perfezione la sua creatività con la manualità di homo
Faber. Ed è proprio da questo fertile connubio che è nato il suo linguaggio originalmente
nuovo, che sa far vibrare le corde della fantasia con esiti fascinosamente poetici, ottenuti con
gli oggetti cherchés et sélectionnés (più che trouvés) nell’ambito dell’universo del suo lavoro
di progettista industriale.
Si potrebbe parlare per le opere d’assemblaggio di Sardano di poesia degli ogetti. Poesia che
Sa esprimersi felicemente sia nelle strofe delle composizioni su tavola che nei poemetti a tutto
tondo con la medesima tenuta inventiva e con lo stesso rigore costruttivo; poesia inpaginativa
nel primo caso, poesia tettonica, nel secondo, dove i “totem” oggettuali escogitati nella sua
officina mostrano che il nostro artista pugliese a saputo mettere a frutto con inflessioni
personalissime la lezione di Boccioni, il quale sin dal 1912 nel Manifesto tecnico della scultura
futurista aveva proclamato che una scultura si può fare anche con venti materiali diversi
dettato che ha costituito la nascita della scultura contemporanea.
Ma, si badi, Sardano non è affatto uno scultore neofuturista, così come non è, nonostante
l’utilizzo degli ogetti, un pittore neodadaista. La sua lingua utilizza, si, termini desunti dal
vocabolario futurista e dadaista, per non dire delle inflessioni informali, concretiste e
costruttiviste, ma la grammatica su cui poggia è fuori di tali tendenze.
E lo è proprio in virtù di una sintassi che di esse riassorbe le istanze di base trasfigurandole
Secondo una particolarissima sensibilità che per immaginazione e per orchestrazione le
trascende nei risultati.
Certo, come ogni lingua anche quella di Sardano ha avuto la sua evoluzione. Solo che in
lui si è verificato un processo inverso, rispetto a quello che ha generato il volgare dal latino.
Il suo “volgare” ha preceduto la maturità della lingua d’oggi: ed esso va individuato nella sua
rivisitazione futurista attuata con gli olii degli anni Ottanta, quando ancora la concitazione,
ora dinamica ed ora sincopata, delle composizioni (e scomposizioni) obbediva più alle pulsioni
dell’emozione che non agli equilibri dei pesi e contrapesi della ratio ideativa, aspetto
quest’ultimo che s’è precisato con l’avvento dell’oggetto sulla scena della pittura.
Credo che tale avvento abbia due matrici. Un sempre crescente bisogno di fisicità, determinato
dalle pratiche del suo lavoro quotidiano e l’incoergibile necessità di sfuggire dal caos reificato.
Da artista artigiano egli s’è inventato modi di lavoro in cui, per quanto attiene alle opere con
oggetti, la pittura fa da controcanto alla fisicità degli inserimenti di vari elementi fisici, non
senza aver rielaborato pratiche del materismo dell’art autre, compreso il ricorso alla juta che
sfrangia accuratamente come centro tavola del suo desco pittorico e mescola alle materie
cromatiche, ma per tutt’altri esiti di quelli ottenuti nei Sacchi da Burri, né più né meno di
quanto fa nei confronti delle tavole imbandite con ogetti affastellati un campione del Noveau
Réalisme come Spoerri.
E’ soprattutto per evitare il pericolo del caotico affastellamento di elementi, aspetto a cui
Sardano talvolta non è sfuggito nei dipinti degli anni Ottanta, ma con meno danno (si sa, nella
pittura la pletora degli elementi, proprio per la bidimensionalità del quadro, è limitata alla sola
visione, cosa che ne attutisce l’esuberanza), che egli s’è rivolto ad un’ipaginazione degli
elementi di cercata geometria oggettuale, dove un tondinato metallico funge da retta o da linea
serpentina, un’asta da parallelepipedo, un disco da cerchio e via rielaborando oggettualmente
forme euclidee, in verità già prefigurate nella pittura degli iniziali anni Novanta, talora con
aggregazioni di pittorici simboli esoterici che avrebbero fatto la gioia degli alchemisti e dei
massoni (si vedano, al riguardo, Vuoto d’animo del 1991 e Pentacolo del 1992).
Una volta entrato nell’era degli ogetti Sardano ha cominciato a declinare congiuntamente
emozione e ragione, in altre parole esuberanza espressiva ed ordine compositivo, svariando
dai quadri con più dischi su cui sono dipinti simboli, tanto da renderli sorta di medaglie che
che finiscono per “decorare” la superfice (Implacabile rotazione,1995), agli altarini triangolari
in cui dischi-equilibristi sono sospesi nello spazio ( Via libera “conquista intensa dello spazio
n. 2”, 1997), oppure si conficcano sull’azzurra superfice scandita da aste (Excursus, 1999),
giù giù fino alle rade esibizioni su fondi color sabbia delle più recenti composizioni (Itegrità
sait, Cerchio incontrastato, Fusione globale, 2000), che hanno il loro diapason nelle tre
“siringhe” seminterrate nella superfice ricoperta di truciolati di falegnameria del coevo sistema
Elga. Sembrerebbe che negli ultimi tempi Sardano abbia optato per rinunce radicali, che si
sono ripercosse anche nell’ambito della scultura, come sta ad attestare nelle Strutture per
installazione del 1999, ciclo propedeutico ai quadri del 2000 testé citati.
Nell’impianto assemblativo di tale ciclo sono prevalse le ritmiche strutturali delle tavole
spoglie di colore aggiunto, che in considerazione del piacere sensuale per il colore, da sempre
evidenziato dal nostro pugliese nella sua produzione, suona come una pausa di riflessione,
quasi ascetica. Del resto, in Sardano c’è sempre un cordone ombelicale che lega pittura e
scultura. Anche per quando attiene ai periodi pre e post l’era dell’irruzione dell’oggetto nel
suo fare. Anzi non può sfuggire che, se in realtà s’era già imposto nei dipinti dei primi anni
del Novanta (Visione Moto a tratti, 1992), addirittura con taluni preannunci dell’avvento
dell’oggetto ascrivibili al 1990, come mi par di cogliere nel centrale piano aggettante del
suggestivo Il teatro dei balocchi, è nell’era degli ogetti che s’è accentuato il ritorno all’ordine
compositivo, assumendo dalla metà degli anni Novanta valore centrale nella produzione di
Sardano, la quale pertanto accentua le ritmiche astratte con dischi e altri elementi desunti dal
lavoro extra-artistico in cui egli s’è imposto.
E mentre talune ritmiche compositive appalesano il fertile tirocinio dovuto al retroterra
pittorico citato (si confrontino le iterazioni diagonali di Moto a tratti del ’92 con quelle di
Impossibile giuntura del ’94, oppure gli incroci con tondo centrale di Vuoto d’animo del ‘91
con quelli di Rilevato traguardo spazio tempo n. 2 del ’96, ma anche la composizione ad assi
di Costruzione n. 2 del ’93 con quella lignea di Struttura per installazione n. 3 del 99),
tuttavia è con l’avvento dell’era dell’ogetto che l’ordine compositivo s’è articolato su
su scansioni più sobrie, appunto per evitare affastellamenti eccessivi.
Ma non per questo la vis fantastica, che ha sempre sostenuto il fare di Sardano, e venuta
meno. Ed infatti, ecco che atraverso tale vis l’artista, con Punto d’arrivo indefinito n. 18 nel
‘ 95 ha saputo costruire il sole del suo regno simbolico, sole che al colmo della sua potenza
irradiante a moltiplicato fino al limite della proliferazione i propri raggi contrassegnati da
altrettanti simboli (Confluire, 1995). E poi, una volta tramontato tale sole, nostro s’è messo
a scrutare il fimamento del suo universo pittorico, “fotografandone” le costellazioni e i
pianeti di talune zone, come accade in Sviluppo di un concetto del 1999.
Certo le ritmiche delle oggettuali composizioni pittoriche hanno subìto una riduzione degli
Elementi, ma l’hanno prontamente risarcita con l’astanza fisica dei “bassorilievi”, astanza
che nell’impatto visivo coinvolge la dimensione tattile.
Questa dimensione, essendo più idonea alla plastica, ha determinato il conseguente approdo
alla scultura, in cui l’assemblaggio degli oggetti ha potuto prendere il largo nello spazio, in
una sorta di navigazione ideativa ed esecutiva che sulla scia dell’opzione euclidea della
pittura reificata a permesso a Sardano di costruire i suoi totem (Percorribile evoluzione,
1998; Divulgare,1999), i suoi monumenti (Propagare, Iperspazio concettuale, 1998; Episodi
Ricorrenti, 1999), persino cosmicamente ricetrasmittenti (Trasmettere, 1999), e le sue
piramidi (Profondo concentrarsi del pensiero, 1998; Diffusione “Vota arte”, 1999), tutti
straordinari assemblages multimediali, su cui svetta Liberata energia vitale, totem del 1998
culminante in quel guanto con le dite aperte sul cielo.
Il guanto è ancora un elemento preso di peso dal mondo del lavoro praticato da Sardano.
Ma per l’uso che egli ne ha fatto in questo giocoso totem verde esso funziona da momento
vitalizzante che anima tutta l’opera, contraddicendo il sottile richiamo metafisico di taluni
lavori dell’anno precedente, quali Continenza ira violenza sdegno desiderio sogni “realtà”
ed i l trittico Planisferio dell’arte concettuale n. 1, dove i guanti erano sistemati nella
medesima posizione d i quella di caucciò dipinto 1914 da Giogio de Chirico in canto
d’amore, olio che fece scoppiare a piangere Magritte, quando ne vide la riproduzione sulla
rivista di Mario Broglio “Valori Plastici”.
E non sembri peregrino il richiamo a de Chirico. Infatti il discorso artistico di Sardano è,
nonostante tutto, permeato di mediterraneità, come i suoi abbandoni cromatici mi sembra
confermino abbondantemente. Una mediterraneità che affonda le radici nella cultura del
meridione d’italia, dove non sono infrequenti i discorsi di di forte sensibilità materica e
fisica, di cui un protagonista negli anni a cavallo tra il Cinquanta e il Sessanta fu Lucio del
Pezzo, artista non a caso passato dagli oggetti affogati nel magma materico a tavole di una
geometria ricca di spessori esoterici ed addirittura alchemici.
L’immaginario di Sardano appare tutto proteso ad un ricongiungimento con la realtà. Di
qui deriva la necesità fisica e tattile della sua manipolazione di ogetti anche nello spazio
della pittura, spazio che governa con un ordine derivante della ratio geometrica.
Ed è da qui che zampillano la sua tecnica ed il suo estro d’artista, perché infatti, come
insegnano le etimologie, ars, che in latino significa “abilità, eccellenza in qualche attività”,
deriva dall’accadico harasu (compongo, metto insieme), termine imparentato con artigiano,
come ci rivela l’ebraico haras (= artigiano), e radicato nella magia, come rivela l’aramaico
haras (=artigiano), e radicato nella magia, come rivela l’aramaico hars (= abilità magica).
Se poi si fa mente locale sul fatto che in greco il termine per arte era techné, derivato dal
verbo accadico taqanu (disporre in ordine) e dal conseguente sostantivo teqnu (il disporre
ordinatamente, abbellimento), si comprenderà su quali sostrati ancestrali si fonda il
discorso di Sardano, che è arte, in quanto è frutto di un modo di comporre, mettendo
assieme diversi elementi con un’abilità magica che ricava il suo fascino appunto dal
disporli in ordine, non preordinatamente, com’è nelle macchine: per esempio, nel
computer, che non a caso i francesi chiamano ordinateur.
E valga questo confronto a ribadire quanto asserito all’inizio di questo testo sull’arte di
Sardano, che non rinnega le sue origine artigiane, anzi le esalta, rinverdendo
modernamente l’antico connubio di arte ed artigianato.
Giorgio Di Genova Roma, Maggio 2000
Testo critico di PIERRE RESTANY
VITO SARDANO “Via internet tutte le strade portano a Monopoli”
Per le composizioni multimediali di Vito Sardano si può parlare, a buon diritto, di poesia
dell’oggetto. Ho vissuto in prima persona, con il Nouveau Realisme, il fenomeno capitale
del ventesimo secolo, l’affermazione della valenza auto espressiva dell’oggetto
industriale e della sua virtù concettuale globalizzante, dai ready-mades di Marcel
Duchamp fino agli oggetti impregnati di blu IKB Yves Klein, passando dalle combine-
paintings di Rauschenberg.
Non posso quindi che essere particolarmente sensibile all’attuale percorso creativo di
Vito Sardano, poiché esso s’inserisce nel cuore della più attuale e scottante problematica
della nostra cultura in totale mutazione: attraverso il trattamento dell’oggetto, è del
destino dell’immagine e del ruolo dell’arte nella nuova civiltà emergente che si tratta.
Dal punto di vista formale, in primo luogo. La formazione artigianale di Sardano si
traduce in estrema meticolosità nella composizione, in rigore strutturale nella centralità
dell’immagine globale, in esuberanza nella proliferazione della simbologia, in
grandissima raffinatezza nell’uso del colore.
A prima vista, questa sovrabbondanza espressiva rischia di apparire come il marchio di
una visione post-futurista che tende al surrealismo. Ma il feticismo decorativo del
dettaglio è ben presto trasceso dalla potenza dell’ordinamento e dalla portata concettuale
dell’immagine globale. In Sardano il passaggio dalla fabbricazione artigianale alla
creazione artistica si è unito ad un’intensa riflessione sulla concettualizzazione sematica
della composizione oggettiva.
Questa stretta relazione fra manuale e mentale gli ha consentito, attraverso la sua naturale
Esuberanza mediterranea e meridionale, di affrontare l’inplacabile logica della nostra
cultura globale, basata sull’imperativo della comunicazione. Con grande naturalezza
Sardano, nel corso quotidiano del suo lavoro, ha saputo far sua la lezione dell’arte
Concettuale: l’ogetto, generato nel mondo reale, diviene vettore dell’idea. La presenza
dei guanti da lavoro in Planisfero dell’arte concettuale (1997) ben simboleggia la presa
di coscienza del cambiamento radicale del ruolo dell’arte. Quella del giorno d’oggi non
aspira più a rappresentare ma a comunicare. E i lavori di Sardano, infatti, fanno
altrettanto. I titoli sono evidenti, da Propagare (1998) a Trasmettere (1999) o a Divulgare
(1999) le sculture multimediali sono dei dispositivi di comunicazione elettronica via
etere poeticamente travestiti, delle antenne paraboliche che vestono il traje de luz,
il vestito di luce dei toreri spagnoli. Queste macchine umanizzate, saturate di
di contrassegni sensibili, non sono elementi folcloristici. Impongono rispetto poichè
segnalano, attraverso i loro quadranti, i loro dischi, le loro rose dei venti, la presenza
della sostanza-chiave della comunicazione, l’energia cosmica, quell’energia vitale di cui
esse sono gli attrattori.
Davanti a Liberata energia vitale (1999), Profondo concentrarsi del pensiero (1998) o
Fusione globale (2000) non posso impedirmi di pensare a Yves Klein ed al suo supremo
concetto di energia cosmica:quell’energia immateriale che, circolando liberamente nello
spazio, giunge ad animare la nostra sensibilità ed è il fondamento di tutti i linguaggi
creativi. Senza di essa tutti i più bei sogni utopici Yves Klein, a cominciare dalla
dalla “conquista intensa dello spazio”, sarebbero stati vani.
E’ su questa energia immateriale che si fondano il potere dei media e la loro estensione
planetaria. E’ lei che oggi assegna all’arte il suo ruolo di vettore umanistico della
comunicazione globale. E’ lei che condiziona il nuovo destino dell’immagine. Questa
ha abbandonato gli statici supporti tradizionali per raggiungere il flusso globale
dell’informazione attraverso la fluidità, l’evanescenza e il movimento dello spazio
televisivo. Fluidità e movimento, sono i due elementi che mancano alle composizioni e
alle sculture di Sardano.
L’immagine statica e oggettiva che l’artista ci presenta attraverso il suo lavoro
Corrisponde, nella sua profonda finalità concettuale, ai più attuali criteri di diffusione
della cultura globale ed agli imperativi spirituali dei protagonisti dell’avventura
dell’oggetto che ne sono stati i percursori. Ogni struttura multimediale che l’artista
Vito costruisce, con il fervore perfezionista di un lavoro ben fatto, diviene di persé un
assemblaggio che s’inscrive nella grande linea storica dell’avventura espressiva
dell’oggetto, come hanno fatto i collage cubisti, futuristi o dada, i ready-mades di
Duchamp o le appropriazioni dei Nouveaux Réalistes.
Ma questi assemblaggi multimediali sono portatori di un’immagine globale di fronte
alla quale l’artista Sardano assume contemporaneamente un diritto e un dovere:il diritto
della concettualizzazione ed il dovere della comunicazione. Queste immagini trovano
spontaneamente lo spazio per inserirsi nel flusso generale dell’informazione planetaria.
Lo spazio di diffusione dell’immagine sardaniana è quello elettronico della televisione
e del sito internet: lo spazio della comunicazione globale, della propagazione, della
trasmissione, della divulgazione; quello della “via libera alla conquista dello spaqzio”
quello della liberazione dell’energia vitale.
Il dualismo artigiano-artista ha così creato in Vito Sardano un meraviglioso paradosso
fra il costruttore di ogetti d’arte, la cui la destinazione è la galleria o il museo, e
l’emittente di immagini concettuali, destinate ad inserirsi nel flusso elettronico della
comunicazione. Una soluzione a questa dicotomia: poiché il lavoro manuale è parte
integrante dell’insieme del suo dispositivo creativo, Vito Sardano dovrebbe riprendere
in vidio l’intera storia della realizzazione di ogni opera, a partire dall’iniziale ricerca
dei materiali di base e la loro progressiva elaborazione, fino all’emergere dell’immagine
globale. Nelle loro performance, che io chiamavo “azioni-spettacolo” i Nouveaux
Réalistes non hanno mai separato le modalità dell’azione performante dal suo risultato
finale. Penso ai pennelli viventi di Yves Klein nelle sue Antropometrie, ai Colères di
Arman, alle compressioni di automobili di César, di cui la Suite milanaise del 1999
costituisce l’estremo culmine, alle macchine autodistruttrici di Tinguely, il cui
capolavoro rimane la Vittoria del 1970 sul sagrato del duomo di Milano.
Penso anche ai “tiri” di Niki de Saint-Phalle, ai “pacchi” di Cristo, ai Tableaux-piegè
di Spoerri, ai Décollages degli affichisti e soprattutto di Mimmo Rotella.
Oggi lo spazio naturale dell’informazione performante è lo schermo del computer: ogni
ogetto multimediale di Vito Sardano dovrebbe essere accompagnato dal suo ritratto
video, l’inseparabile documento che rintraccia la storia dell’immagine globale di cui
esso è portatore e garantisce la sua autenticità come oggetto d’arte, cioè come oggetto
di comunicazione.
Questa “prova del fuoco” televisivo si s’inscrive nell’inesorabile senso della storia. Con
i suoi reay-mades Duchamp aveva perentoriamente affermato che <sono gli spettatori
che fanno l’arte>, evidenziando così il peso capitale dell’adesione del pubblico sul
piatto della bilancia estetica. La democratizzazione del gusto da lui instaurata arriva
oggi, nel nostro periodo di globalizzazione culturale, alla sua fase culminante: il
trasferimento della gestione di questa suprema prerogativa della coscienza collettiva ai
ai media, detentori dell’informazione e della memoria planetarie.
E’ proprio attraverso lo schermo elettronico del video che si può percepire la portata
globalizzante dell’immagine concettuale sardaniana. Dando prova di un notevole
‘’tempismo”, Vito Sardano, poeta ispirato dell’oggetto, si trova ormai all’incrocio delle
strade o piuttosto al crocevia delle autostrade della comunicazione. Cioè in un contesto
ambiguo di centralità incontrastata e quasi impenetrabile, indefinito punto d’arrivo nel
quale egli si sente bene. Sceglierà fra la staticità della struttura significante e la diffusione
dell’immagine concettuale sullo schermo fluido? O seguirà il mio suggerimento di far
coesistere le due cose senza tuttavia sottrarsi alla prova del fuoco telematico? Solo il
tempo ci darà una risposta. Sono curioso ed impaziente di conoscerla.
Bravo Vito ed “ad maiora”, sarei tentato di dire riprendendo io le parole di Walter
Laganà, sindaco di Monopoli, nell’itroduzione al bel catalogo della mostra dell’artista,
tenutasi, nel luglio 2000, al Castello di Carlo V della città pugliese, la sua città natale.
Monopoli, la città dove oggi Vito Sardano vive e lavora: via internet tutte le strade
portano a Monopoli!
Pierre Restany Milano, Marzo 2002
Testo critico di VALERIO DEHO'
TO OVERSHOOT
Nell’immaginario del riuso dei materiali è insita un’idea di futuro che è nello stesso tempo
nostalgia del passato. L’accumulo e il riciclo sono componenti storiche del Neo dada di
Rauschenberg e degli europei Nuovi realisti organizzati dal mitico poeta e critico d’arte
Pierre Restany. Il trash o comunque il già vissuto ha la funzione mnemotecnica di
conservare l’inutile, tipica operazione artistica, di annunciare il presente, e attraverso la
sua critica (la società, i consumi, lo spreco, etc.), prefigurare un futuro migliore. Oggi si
potrebbe aggiungere una variabile ecosostenibile, una sorta d’invito a non sprecare e a
riutilizzare quello che è possibile. In ogni caso lo spostare gli ogetti facendoli diventare
segni artistici, è certamente una pratica fondamentale in tutto il Novecento.
Ma come ha già osservato Giorgio Di Genova, Vito Sardano non ha parentele
avanguardistiche essendo lontano sia dal Futurismo che da Dadaismo. Certamente è vero
che gli assemblaggi, i polimaterici nascono con Umberto Boccioni e poi con Richard
Huelsenbeck e tanti altri, ma in un secolo sono tante le cose che cambiano e trascorrono
per cui certamente in sé la tecnica non giustifica alcuna analogia.
E’ vero invece che Sardano lavora sempre nella direzione di una ricerca figurativa a cui
tutto si piega. E’ uno che mette in ordine le idee attraverso quest’interferenza tra gli
oggetti d’uso, fra cui suoi amati dischi da smerigliatrice, o anche con materiali che tutto
sommato nella nuova vita artistica finiscono col perdere ogni riconoscibilità di un tempo.
Non è un cantore del mondo meccanico, il suo futuro e dolce e colorato, la sua arte non
ha asprezze di sorta ma propende a colori zuccherini, a manipolazioni e interventi quasi
da altra pasticceria. Sembra che nei lavori degli ultimi due anni prenda forma una poetica
neobarocca in cui si accentua una torsione della forma, un aggrovigliamento dei materiali
che seguono morbide tensioni, sinuose traiettorie che portano a se stesse. Credo che
questa caratteristica dell’artista vada un pò enfatizzata altrimenti si rischia sempre di
di ricorrere alla spiegazione biografica della sua opera, cioè alla sua radice operaia e
quindi al ribaltamento da lui operato attraverso l’arte degli strumenti di lavoro in
strumenti di comunicazione. Mi preme invece sottolineare l’assoluta gratuità del suo
lavoro, cioè la sua pertinenza alle sfere della creazione e non della sociologia. Non c’è
nessun senso nei suoi lavori se non esattamente come sono fatti, il tempo impiegato, le
associazioni cercate di questi piccoli monumenti all’infinito. E proprio come nella logica
barocca non solo i materiali sono portati oltre i loro limiti funzionali e di pregnanza
visiva, ma hanno anche un limite interno che viene messo alla prova. La regola di
Sardano. E’ una sua strada personale che non ha nessuna intezione di porsi in una
dimensione storica e né tantomeno storicistica.
L’idea di futuro che ne può scaturire è effimera, non ha radici nel suo linguaggio. La sua
meccanica è decorativa, non vuole anticipare qualcosa ma vuole porsi solo come visione
interiore. Non rappresenta qualcosa se non se stessa, non si vuole creare una super-realtà
di alcun tipo. Anzi alla fine se si guarda bene, Sardano ha una spiccata propensione per
una combinatoria infinita e ricorsiva. Spesso i simboli componenti tornano più volte con
diverse colorazioni e assumendo delle posizioni, concettuali e non solo compositive,
differenti. E’ una combinatoria, è un gioco e come tutti i giochi si vorrebbe che non
finissero mai.
La meccanica, i suoi riflessi, le sue parti minute e frammentarie viene quasi superata e
ironizzata in una sorta di rivoluzione umanistica contro la tecnica. Ha scritto con la
consueta intelligenza Pierre Restany a proposito dei lavori precedenti: “Queste macchine
umanizzate, saturate, di contrassegni sensibili, non sono elementi folcloristici. Impongono
rispetto perché segnalano, attraverso i loro quadranti, i loro dischi, le loro rose dei venti
la presenza della sostanza-chiave della comunicazione, l’energia cosmica, qull’energia
vitale di cui essa sono gli attrattori. “E proprio questa energia è l’uomo, sempre e
comunque, con la sua consapevolezza, la sua capacità di far diventare gioco le cose serie.
Del resto le opere multimediale di Vito Ssardano hanno un’interattività concettuale,
vogliono sorprendere e interessare, senza però perdere l’aspetto da giocattolo sofisticato
e intelligente.
Hanno le caratteristiche una sorta di primitivismo attualizzato, richiamano immagini
totemiche apparirebbero fortemente perturbanti soprattutto in contesti urbani o non
deputati strettamente all’esposizione artistica. All’interno di una galleria d’arte diventano
troppo “semplicemente” cose strani e particolari, ma un loro uso da Public art nei contesti
quotidiani per le strade e piazze riuscirebbero a colpire ancora di più perché fanno
interrogare sulla loro funzione, sulle domande che suscitano. Sono ibridi che vivono nello
spazio intermedio tra la vita e l’arte, tra il gioco e le necessità esistenziali legate alla
creazione continua, alla proposta del proprio universo personale come metafora del
mondo. Del resto vanno evocati sia il ludico che un senso neo-barocco molto
contemporaneo e sempre vicino alle dinamiche sociali attuali.
Vito Sardano gioca e fa giocare il suo pubblico, sapendo di farlo e dando un contenuto
comunicativo al suo lavoro. La meraviglia non è fine a se stessa, anzi l’esibizione
artigianale dei materiali ha la funzione di avvicinare il pubblico,di accostarlo all’elemento
tecnologico inserito nella struttura. E’ quindi una tecnologia leggera, quasi soffice, anche
se la sua natura e le sue problematiche restano inalterate.
I recenti lavori in cui l’artista usa delle corde bianche e nere sembrano aprire una strada
ancora più rivolta ad un mondo complesso, ma anche maggiormente evocativo, che si
agita e si muove in base un modo sempre più organico. Sono anche una memoria
marinara dei nodi, dei percorsi in cui forma, abilità e sapienza tramandata, vanno a
sondare l’esperienza dello spettatore e a determinare delle possibilità di associazioni
mentali più stratificate.
Anche l’abbandono di titoli di tipo narrativo è funzionale a portare lo spettatore a contatto
con il lavoro interamente con la sua complessità. In questo senso l’evoluzione continua
e una spiccata esteticità dei lavori contribuiscono ad una loro funzione più dolce e
maggiormente libera da retaggi ideologici o da filosofie anti scientifiche sempre in agguato.
Sardano vuole fare arte e basta, il che sembra già sufficiente senza ricorrere scomodare
dietrologie o sconfinamenti sempre possibili ma mai gratuiti. La felicità dell’opera, la
libertà dell’artista di piegare le forme alla loro in/verosimile diversità, può finalmente
concedere qualcosa al senso estetico, che alla fine è l’unica qualità indispensabile che ogni
opera d’arte dovrebbe avere.
Valerio Dehò Bologna, Novemre 2008