Giorgio Di Genova

Pierre Restany

Valerio Dehò

 

 

 

 

 

Testo critico di GIORGIO DI GENOVA

 

 

 

                                  VITO SARDANO, ovvero il fascino della pittura reificata

 

       C’è chi crede che col  progredire dell’era  tecno-elettronica  l’arte  sia  destinata  a   scomparire.

 

       Io, consapevole che tali  previsioni  sono  state  avanzate  sin  dalla  scoperta  del   dagherrotipo

 

       (1839)   e ripetute   ad  ogni  scoperta  della  moderna  tecnologia,  non sono tra questa  schiera.

 

       L’arte  è  una    prerogativa  dell’uomo.      Pertanto,        come  il  computer  ed    internet   non

 

       prenderanno il posto dei libri, ma li affiancheranno soltanto,  altrettanto  averrà per i  manufatti

 

       dell’arte,  che  continueranno  senza  alcun  dubbio  ad essere  affiancati  dallaxerox  arte,  dalla

 

       computer art, dalla video arte e da tutti gli altri prodotti più   avanzate  e  sofisticate  tecnologie,

 

       senza mai prenderne definitivamente il posto.

 

       Infatti sono persuaso che la partita del futuro non si gioca sul tavolo dell’azzeramento dell’arte,

 

       bensì sul tavolo dell’arricchimento dei suoi linguaggi e media espressivi. Inaltre parole  l’homo

 

       faber non sarà ucciso dall’homo technologicus et electronicus.

 

       Questa premessa mi è sembrata necessaria per introdurre il discorso  su  Vito Sardano, provetto

 

       Artista,  che  ha  saputo  coniugare  alla  perfezione  la  sua  creatività con la manualità di homo

 

       Faber.  Ed è proprio  da  questo  fertile  connubio  che    è  nato il suo  linguaggio originalmente          

 

       nuovo, che sa far vibrare le corde  della  fantasia  con esiti  fascinosamente poetici, ottenuti con

 

       gli oggetti cherchés et sélectionnés  (più che trouvés)  nell’ambito  dell’universo  del suo lavoro

 

       di progettista industriale.

 

       Si potrebbe parlare per le opere d’assemblaggio  di  Sardano  di  poesia degli  ogetti. Poesia che

 

       Sa esprimersi felicemente sia nelle strofe delle composizioni su  tavola  che nei poemetti a tutto

 

       tondo con la medesima tenuta inventiva e con lo stesso rigore  costruttivo;  poesia  inpaginativa

 

       nel primo  caso, poesia  tettonica,  nel  secondo, dove  i  “totem”  oggettuali escogitati nella sua

 

       officina   mostrano  che  il  nostro  artista  pugliese  a  saputo  mettere a frutto  con    inflessioni

 

       personalissime la lezione di Boccioni, il quale sin dal 1912 nel Manifesto tecnico della scultura

 

       futurista aveva  proclamato  che una  scultura  si  può  fare  anche  con  venti   materiali  diversi 

 

       dettato che ha costituito la nascita della scultura contemporanea.

 

       Ma,  si  badi,  Sardano  non  è  affatto  uno  scultore  neofuturista, così come  non è, nonostante

 

       l’utilizzo degli ogetti,  un  pittore  neodadaista.  La  sua lingua  utilizza, si,  termini  desunti dal    

 

       vocabolario    futurista  e    dadaista,   per  non  dire  delle  inflessioni  informali,  concretiste  e

 

       costruttiviste, ma la grammatica su cui poggia è fuori di tali tendenze.

 

       E lo è proprio  in  virtù  di una  sintassi  che  di esse riassorbe  le istanze di base trasfigurandole

 

       Secondo  una   particolarissima   sensibilità   che  per  immaginazione  e  per  orchestrazione  le

 

       trascende nei risultati.

 

       Certo, come  ogni  lingua  anche  quella  di  Sardano  ha  avuto  la sua  evoluzione.  Solo che in

 

       lui si è  verificato  un  processo  inverso,  rispetto a quello che ha generato il volgare dal latino.

 

       Il suo “volgare” ha preceduto la maturità della lingua d’oggi: ed esso va individuato  nella  sua

 

       rivisitazione futurista attuata  con  gli olii  degli anni Ottanta,  quando  ancora  la  concitazione,

 

       ora dinamica ed ora sincopata, delle composizioni (e scomposizioni) obbediva più alle pulsioni

 

       dell’emozione  che  non  agli   equilibri  dei  pesi  e  contrapesi  della   ratio   ideativa,   aspetto

 

       quest’ultimo che s’è precisato con l’avvento dell’oggetto sulla scena della pittura.

 

       Credo che tale avvento abbia due matrici. Un sempre crescente bisogno di fisicità, determinato

 

       dalle  pratiche del suo lavoro quotidiano e l’incoergibile necessità di sfuggire dal caos reificato.

 

       Da artista artigiano egli s’è inventato modi di lavoro in cui,  per  quanto  attiene  alle opere con

 

       oggetti,  la pittura fa da controcanto  alla fisicità  degli  inserimenti  di vari  elementi fisici, non

 

       senza aver rielaborato pratiche del materismo dell’art autre,  compreso  il  ricorso  alla juta che 

 

       sfrangia accuratamente come centro  tavola  del  suo  desco   pittorico e mescola  alle    materie

 

       cromatiche,  ma  per  tutt’altri  esiti  di  quelli  ottenuti  nei Sacchi  da Burri, né più né  meno di

 

       quanto fa  nei confronti delle tavole imbandite con ogetti affastellati un  campione del  Noveau

 

 

 

 

 

     

 

 

 

       Réalisme come Spoerri.

 

       E’ soprattutto  per  evitare il pericolo del caotico  affastellamento  di  elementi,  aspetto  a  cui

 

       Sardano talvolta non è sfuggito nei dipinti degli anni Ottanta, ma con meno danno (si sa, nella

 

       pittura la pletora degli elementi, proprio per la bidimensionalità del quadro, è limitata alla sola

 

       visione, cosa che ne attutisce l’esuberanza),  che  egli  s’è   rivolto  ad   un’ipaginazione  degli

 

       elementi di cercata geometria oggettuale, dove un tondinato metallico funge da retta o da linea

 

       serpentina, un’asta da parallelepipedo, un disco da cerchio e via  rielaborando oggettualmente

 

       forme euclidee, in verità già prefigurate nella pittura  degli  iniziali  anni   Novanta,  talora con

 

       aggregazioni di pittorici simboli esoterici che avrebbero fatto  la  gioia  degli   alchemisti e dei

 

       massoni (si vedano, al riguardo, Vuoto d’animo del 1991 e Pentacolo del 1992).

 

       Una volta entrato nell’era degli  ogetti Sardano  ha   cominciato   a declinare  congiuntamente

 

       emozione e ragione, in altre parole esuberanza  espressiva  ed  ordine  compositivo, svariando

 

       dai quadri con più dischi su cui sono dipinti simboli, tanto da renderli  sorta  di  medaglie  che

 

       che finiscono per “decorare” la superfice (Implacabile rotazione,1995), agli altarini triangolari

 

       in cui  dischi-equilibristi sono sospesi nello spazio ( Via libera “conquista intensa dello spazio

 

        n. 2”, 1997),  oppure si conficcano sull’azzurra superfice scandita da   aste   (Excursus, 1999),

 

       giù giù fino alle rade esibizioni su fondi color sabbia delle più recenti composizioni    (Itegrità

 

       sait, Cerchio incontrastato, Fusione globale, 2000),   che   hanno  il  loro  diapason   nelle    tre

 

       “siringhe” seminterrate nella superfice ricoperta di truciolati di falegnameria del coevo sistema

 

       Elga. Sembrerebbe che negli ultimi tempi Sardano abbia  optato  per  rinunce  radicali,  che  si

 

       sono ripercosse anche nell’ambito della scultura,  come  sta  ad  attestare  nelle   Strutture   per

 

       installazione del 1999, ciclo propedeutico ai quadri del 2000 testé citati.

 

       Nell’impianto assemblativo di tale  ciclo  sono  prevalse  le  ritmiche  strutturali   delle  tavole

 

       spoglie di colore aggiunto, che in considerazione del piacere sensuale per il colore, da sempre

 

       evidenziato dal nostro pugliese nella sua produzione,   suona come una  pausa   di  riflessione,

 

       quasi ascetica.  Del resto,  in  Sardano   c’è sempre un cordone  ombelicale  che  lega pittura e

 

       scultura. Anche per quando attiene ai periodi pre e post l’era  dell’irruzione   dell’oggetto  nel

 

       suo fare. Anzi non può sfuggire che, se in realtà s’era già imposto  nei  dipinti  dei  primi anni

 

       del  Novanta   (Visione Moto a tratti, 1992),   addirittura con taluni  preannunci   dell’avvento

 

       dell’oggetto ascrivibili al 1990, come mi par di cogliere nel  centrale   piano   aggettante   del

 

       suggestivo Il teatro dei balocchi, è nell’era degli ogetti che s’è accentuato il ritorno all’ordine

 

       compositivo, assumendo dalla metà degli anni Novanta valore  centrale  nella  produzione  di

 

       Sardano, la quale pertanto accentua le ritmiche astratte con dischi e altri elementi desunti dal

 

       lavoro extra-artistico in cui egli s’è imposto.

 

       E  mentre  talune  ritmiche  compositive  appalesano  il  fertile  tirocinio  dovuto  al retroterra

 

       pittorico citato (si confrontino le iterazioni diagonali di   Moto  a  tratti  del ’92 con  quelle di

 

       Impossibile giuntura del ’94, oppure gli incroci con tondo centrale di Vuoto d’animo  del ‘91

 

       con quelli di Rilevato traguardo spazio tempo n. 2 del ’96, ma anche la composizione  ad assi

 

       di   Costruzione   n. 2 del ’93  con  quella  lignea  di  Struttura  per  installazione n. 3 del 99),

 

       tuttavia    è   con   l’avvento   dell’era   dell’ogetto che l’ordine compositivo s’è  articolato su

 

       su scansioni più sobrie, appunto per evitare affastellamenti eccessivi.

 

       Ma non per questo la vis fantastica,   che ha sempre   sostenuto il fare di   Sardano,  e venuta

 

       meno. Ed infatti, ecco che atraverso tale vis l’artista, con Punto d’arrivo indefinito  n. 18 nel

 

      95 ha saputo costruire il sole del suo regno simbolico, sole che al colmo della   sua  potenza

 

       irradiante a moltiplicato fino al limite della proliferazione   i  propri raggi   contrassegnati da   

 

       altrettanti simboli (Confluire, 1995). E poi, una volta tramontato tale sole, nostro  s’è  messo

 

       a scrutare il   fimamento   del suo universo pittorico,   “fotografandone”   le  costellazioni e i

 

 

 

      

 

 

 

       pianeti di talune zone, come accade in Sviluppo di un concetto del 1999.

 

       Certo le ritmiche delle oggettuali composizioni pittoriche hanno subìto una  riduzione  degli

 

       Elementi, ma l’hanno prontamente risarcita con l’astanza  fisica dei  “bassorilievi”,  astanza

 

       che nell’impatto visivo coinvolge la dimensione tattile.

 

       Questa dimensione, essendo più idonea alla plastica, ha determinato il conseguente approdo

 

       alla scultura, in cui l’assemblaggio degli oggetti ha potuto prendere il largo nello  spazio,  in

 

       una sorta di navigazione ideativa ed esecutiva   che  sulla  scia  dell’opzione  euclidea  della

 

       pittura reificata a permesso a   Sardano   di costruire i suoi totem    (Percorribile evoluzione,

 

       1998; Divulgare,1999), i suoi monumenti (Propagare, Iperspazio concettuale, 1998; Episodi

 

       Ricorrenti,   1999),    persino cosmicamente ricetrasmittenti (Trasmettere,   1999),  e  le  sue

 

       piramidi (Profondo concentrarsi del pensiero,   1998;  Diffusione “Vota arte”,   1999),   tutti

 

       straordinari assemblages multimediali, su cui svetta Liberata energia vitale,   totem del 1998

 

       culminante in quel guanto con le dite aperte sul cielo.

 

       Il guanto è ancora un elemento preso di peso  dal mondo  del lavoro  praticato   da  Sardano.

 

       Ma per l’uso che egli ne ha fatto in questo giocoso totem verde esso funziona da   momento

 

       vitalizzante che anima tutta l’opera, contraddicendo il sottile richiamo  metafisico  di  taluni

 

       lavori dell’anno precedente, quali Continenza ira violenza sdegno   desiderio sogni  “realtà”

 

       ed  i l trittico   Planisferio    dell’arte    concettuale n. 1, dove i guanti  erano  sistemati  nella

 

       medesima   posizione  d i quella  di    caucciò   dipinto  1914 da  Giogio de Chirico in canto

 

       d’amore, olio che fece scoppiare a piangere Magritte, quando ne vide la riproduzione   sulla

 

       rivista di Mario Broglio “Valori Plastici”.

 

       E non sembri peregrino il richiamo a de Chirico.   Infatti il discorso artistico di  Sardano  è,

 

       nonostante tutto, permeato di  mediterraneità,  come i suoi abbandoni  cromatici mi sembra

 

       confermino abbondantemente.  Una   mediterraneità   che affonda le radici nella cultura del

 

       meridione   d’italia,   dove non sono  infrequenti  i discorsi di di forte sensibilità  materica e

 

       fisica, di cui un protagonista negli anni a cavallo tra il Cinquanta e il  Sessanta fu Lucio del

 

       Pezzo, artista non a caso passato dagli oggetti affogati nel magma materico a  tavole di una

 

       geometria ricca di spessori esoterici ed addirittura alchemici.

 

       L’immaginario di   Sardano   appare tutto proteso ad un ricongiungimento con la realtà. Di

 

       qui deriva  la necesità fisica e tattile della sua manipolazione di  ogetti  anche nello  spazio

 

       della pittura, spazio che governa con un ordine derivante della ratio geometrica.

 

       Ed è da qui che   zampillano   la sua tecnica   ed il suo estro  d’artista, perché infatti,  come

 

       insegnano le etimologie, ars, che in latino significa “abilità, eccellenza in qualche attività”,

 

       deriva dall’accadico harasu (compongo, metto insieme), termine imparentato con artigiano,

 

       come ci rivela l’ebraico haras (= artigiano), e radicato nella magia, come rivela l’aramaico

 

       haras (=artigiano), e radicato nella magia, come rivela l’aramaico hars   (= abilità magica).

 

       Se poi si fa mente locale sul fatto che in greco il termine per arte era  techné,  derivato dal

 

       verbo accadico taqanu (disporre in ordine) e dal conseguente  sostantivo teqnu (il disporre

 

       ordinatamente,   abbellimento),    si comprenderà  su  quali  sostrati  ancestrali  si  fonda il

 

       discorso di   Sardano,   che è  arte, in  quanto è frutto  di un  modo di  comporre, mettendo

 

       assieme  diversi  elementi  con  un’abilità  magica  che  ricava il suo  fascino  appunto dal

 

       disporli in ordine, non   preordinatamente,   com’è   nelle   macchine:   per   esempio,   nel

 

       computer, che non a caso i francesi chiamano ordinateur.

 

       E valga questo confronto a ribadire quanto asserito all’inizio  di   questo  testo  sull’arte di

 

       Sardano,     che  non  rinnega   le  sue   origine   artigiane,   anzi   le   esalta,    rinverdendo

 

       modernamente l’antico connubio di arte ed artigianato.

 

       Giorgio Di Genova Roma, Maggio 2000 

 

 

 

 

 

Testo critico di PIERRE RESTANY

 

 

 

 

 

 

 

                           VITO SARDANO  “Via internet tutte le strade portano a Monopoli”

 

 

 

          Per le composizioni multimediali di Vito Sardano si può parlare, a buon diritto, di poesia

 

          dell’oggetto. Ho vissuto in prima persona, con il Nouveau Realisme, il fenomeno capitale

 

          del    ventesimo   secolo,   l’affermazione   della   valenza   auto  espressiva   dell’oggetto

 

          industriale  e  della   sua   virtù   concettuale   globalizzante,   dai  ready-mades di Marcel

 

          Duchamp fino agli oggetti impregnati   di blu  IKB  Yves Klein, passando dalle combine-

 

          paintings di Rauschenberg.

 

          Non posso quindi che essere  particolarmente sensibile  all’attuale  percorso   creativo  di

 

          Vito Sardano, poiché esso s’inserisce nel  cuore della più attuale e scottante problematica

 

          della  nostra  cultura  in  totale  mutazione:  attraverso  il  trattamento  dell’oggetto,  è del

 

          destino dell’immagine e del  ruolo dell’arte nella nuova  civiltà  emergente  che  si  tratta.

 

          Dal punto di vista formale,  in  primo  luogo.   La formazione  artigianale  di   Sardano  si

 

          traduce in estrema meticolosità  nella composizione, in rigore strutturale  nella   centralità

 

          dell’immagine   globale,    in   esuberanza   nella     proliferazione  della   simbologia,   in

 

          grandissima raffinatezza nell’uso del colore.

 

          A prima vista, questa sovrabbondanza espressiva rischia di apparire come  il   marchio di

 

          una visione   post-futurista   che  tende al surrealismo.   Ma  il  feticismo  decorativo   del

 

          dettaglio è ben presto trasceso dalla potenza dell’ordinamento e dalla portata  concettuale

 

          dell’immagine globale.  In   Sardano   il  passaggio  dalla  fabbricazione   artigianale  alla

 

          creazione artistica si è unito ad un’intensa riflessione  sulla concettualizzazione  sematica

 

          della composizione oggettiva.

 

          Questa stretta relazione fra manuale e mentale gli ha consentito, attraverso la sua naturale

 

          Esuberanza  mediterranea e meridionale, di affrontare   l’inplacabile  logica  della   nostra

 

          cultura globale, basata  sull’imperativo  della  comunicazione.   Con  grande   naturalezza

 

          Sardano,  nel corso quotidiano del  suo lavoro,   ha   saputo  far  sua  la  lezione   dell’arte

 

          Concettuale:  l’ogetto, generato nel mondo  reale, diviene vettore dell’idea.  La   presenza

 

          dei guanti da lavoro in  Planisfero dell’arte  concettuale (1997) ben simboleggia  la  presa

 

          di coscienza del  cambiamento radicale del  ruolo dell’arte. Quella del giorno d’oggi  non

 

          aspira   più  a  rappresentare  ma   a   comunicare.   E  i lavori di  Sardano,   infatti,  fanno

 

          altrettanto. I titoli  sono evidenti, da Propagare (1998) a Trasmettere (1999) o a Divulgare

 

          (1999) le sculture  multimediali  sono dei dispositivi di   comunicazione   elettronica   via

 

          etere  poeticamente  travestiti,   delle   antenne   paraboliche  che  vestono  il traje  de luz,

 

          il   vestito   di  luce  dei   toreri   spagnoli.    Queste   macchine   umanizzate,  saturate  di

 

          di contrassegni sensibili, non sono  elementi   folcloristici.  Impongono   rispetto   poichè

 

          segnalano,  attraverso  i loro quadranti, i loro dischi,  le  loro  rose  dei  venti,  la presenza

 

          della sostanza-chiave della comunicazione, l’energia  cosmica, quell’energia vitale di cui

 

          esse sono gli attrattori.

 

          Davanti a Liberata energia vitale (1999),  Profondo concentrarsi  del  pensiero  (1998)  o

 

          Fusione globale (2000) non posso impedirmi di pensare a Yves  Klein ed al suo supremo

 

          concetto di energia cosmica:quell’energia immateriale che, circolando  liberamente nello

 

          spazio, giunge ad  animare la nostra sensibilità ed è il  fondamento   di  tutti  i   linguaggi

 

          creativi.   Senza   di essa   tutti i più bei   sogni   utopici  Yves  Klein,  a cominciare dalla

 

          dalla “conquista intensa dello spazio”, sarebbero stati vani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          E’ su questa  energia immateriale che si fondano il potere dei media e la loro estensione

 

          planetaria.   E’ lei   che  oggi  assegna   all’arte  il suo ruolo di vettore   umanistico della

 

          comunicazione globale. E’ lei che condiziona il nuovo  destino  dell’immagine.  Questa

 

          ha   abbandonato   gli   statici   supporti   tradizionali  per  raggiungere  il  flusso globale

 

          dell’informazione attraverso la fluidità,   l’evanescenza   e   il  movimento  dello  spazio

 

          televisivo. Fluidità e movimento, sono i due elementi che mancano alle  composizioni e

 

          alle sculture di Sardano.

 

          L’immagine   statica   e   oggettiva   che   l’artista  ci  presenta  attraverso  il suo  lavoro

 

          Corrisponde, nella sua profonda finalità concettuale,  ai più  attuali  criteri  di diffusione

 

          della   cultura   globale   ed   agli   imperativi   spirituali dei  protagonisti  dell’avventura

 

          dell’oggetto  che  ne  sono stati  i percursori.  Ogni  struttura  multimediale  che  l’artista

 

          Vito costruisce, con il fervore perfezionista di un lavoro ben fatto, diviene  di  persé  un

 

          assemblaggio   che   s’inscrive   nella   grande   linea  storica  dell’avventura  espressiva

 

          dell’oggetto,  come  hanno  fatto  i  collage  cubisti,  futuristi o  dada, i  ready-mades  di

 

          Duchamp o le appropriazioni dei Nouveaux Réalistes.

 

          Ma questi assemblaggi multimediali sono portatori  di un’immagine  globale   di  fronte

 

          alla quale l’artista Sardano assume contemporaneamente un diritto e un dovere:il diritto

 

          della concettualizzazione ed il dovere della comunicazione.  Queste  immagini   trovano

 

          spontaneamente lo spazio per inserirsi nel flusso  generale dell’informazione  planetaria.

 

          Lo spazio di diffusione dell’immagine sardaniana è quello elettronico  della  televisione

 

          e del sito internet:  lo spazio  della   comunicazione globale,   della  propagazione,  della

 

          trasmissione,  della divulgazione;  quello della   “via libera alla conquista dello spaqzio”

 

          quello della liberazione dell’energia vitale.

 

          Il dualismo artigiano-artista ha così creato  in Vito Sardano un  meraviglioso  paradosso

 

          fra   il   costruttore  di   ogetti   d’arte,   la cui la destinazione è la   galleria o il museo, e

 

          l’emittente di immagini concettuali,   destinate  ad inserirsi nel  flusso  elettronico  della

 

          comunicazione. Una soluzione a questa dicotomia:   poiché  il  lavoro  manuale  è  parte

 

          integrante dell’insieme del suo dispositivo creativo, Vito  Sardano  dovrebbe riprendere

 

          in vidio l’intera  storia della realizzazione di  ogni  opera,  a partire  dall’iniziale  ricerca

 

          dei materiali di base e la loro progressiva elaborazione, fino all’emergere dell’immagine

 

          globale.   Nelle  loro performance,   che io chiamavo   “azioni-spettacolo”   i  Nouveaux

 

          Réalistes non hanno mai separato le modalità dell’azione performante dal suo   risultato

 

          finale. Penso ai pennelli viventi di Yves Klein  nelle sue   Antropometrie,  ai Colères  di

 

          Arman, alle compressioni di automobili di  César,  di cui  la   Suite  milanaise  del  1999

 

          costituisce   l’estremo   culmine,   alle   macchine  autodistruttrici   di Tinguely,   il   cui

 

          capolavoro rimane la Vittoria del 1970 sul sagrato del duomo di Milano.

 

          Penso anche ai “tiri” di Niki de Saint-Phalle, ai “pacchi” di  Cristo, ai    Tableaux-piegè

 

          di Spoerri, ai Décollages degli affichisti e soprattutto di Mimmo Rotella.

 

          Oggi lo spazio naturale dell’informazione performante è lo schermo del computer: ogni

 

          ogetto multimediale di Vito   Sardano   dovrebbe   essere accompagnato dal suo  ritratto

 

          video, l’inseparabile documento che rintraccia la storia   dell’immagine   globale di  cui

 

          esso è portatore e garantisce la sua autenticità come  oggetto d’arte, cioè   come oggetto

 

          di comunicazione.

 

          Questa “prova del fuoco” televisivo si s’inscrive nell’inesorabile senso della storia. Con

 

          i suoi reay-mades  Duchamp aveva perentoriamente affermato che   <sono gli  spettatori

 

          che fanno l’arte>,   evidenziando  così  il peso  capitale dell’adesione  del   pubblico  sul

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          piatto della bilancia estetica. La democratizzazione  del  gusto  da   lui   instaurata   arriva

 

          oggi,   nel  nostro  periodo   di  globalizzazione   culturale,   alla  sua  fase  culminante:  il

 

          trasferimento della gestione di questa suprema prerogativa  della   coscienza  collettiva  ai

 

          ai media, detentori dell’informazione e della memoria planetarie.

 

          E’  proprio  attraverso  lo schermo elettronico del video   che  si  può  percepire la  portata

 

          globalizzante   dell’immagine   concettuale    sardaniana.    Dando  prova  di  un  notevole

 

          ‘’tempismo”, Vito  Sardano,  poeta  ispirato dell’oggetto, si trova ormai all’incrocio  delle

 

          strade o piuttosto al crocevia delle  autostrade  della comunicazione. Cioè  in un  contesto

 

          ambiguo di  centralità  incontrastata e quasi impenetrabile, indefinito   punto  d’arrivo  nel

 

          quale egli si sente bene. Sceglierà fra la staticità della struttura significante e la diffusione

 

          dell’immagine concettuale sullo schermo  fluido?  O seguirà  il  mio  suggerimento di  far

 

          coesistere le due cose senza tuttavia sottrarsi  alla  prova  del   fuoco  telematico?  Solo   il

 

          tempo ci darà una risposta. Sono curioso ed impaziente di conoscerla.

 

          Bravo    Vito   ed   “ad maiora”,   sarei  tentato  di dire riprendendo io le parole  di  Walter

 

          Laganà, sindaco di Monopoli,   nell’itroduzione   al bel  catalogo della mostra   dell’artista, 

 

          tenutasi, nel luglio 2000, al  Castello di  Carlo V  della città pugliese,  la  sua  città   natale. 

 

          Monopoli,   la   città  dove  oggi   Vito Sardano   vive  e  lavora: via internet tutte le strade

 

          portano a Monopoli!

 

          Pierre Restany Milano, Marzo 2002       

 

 

 

Testo critico di VALERIO DEHO'       

 

 

 

 

 

        TO OVERSHOOT

 

 

 

        Nell’immaginario del riuso dei materiali è insita un’idea di futuro che è nello  stesso tempo

 

        nostalgia del passato. L’accumulo e il riciclo sono componenti  storiche  del  Neo  dada  di

 

        Rauschenberg e degli europei Nuovi realisti organizzati dal mitico  poeta e    critico  d’arte

 

        Pierre   Restany.   Il  trash  o  comunque  il  già  vissuto  ha  la funzione   mnemotecnica di

 

        conservare l’inutile, tipica operazione artistica, di annunciare il  presente,  e   attraverso  la

 

        sua critica (la società, i consumi, lo spreco, etc.), prefigurare un futuro  migliore.   Oggi  si

 

        potrebbe aggiungere una variabile ecosostenibile, una sorta d’invito  a  non    sprecare  e  a

 

        riutilizzare quello che è possibile. In ogni caso lo spostare gli  ogetti  facendoli   diventare

 

        segni artistici, è certamente una pratica fondamentale in tutto il Novecento.

 

        Ma   come   ha   già   osservato   Giorgio  Di  Genova,   Vito  Sardano   non  ha   parentele

 

        avanguardistiche essendo lontano sia dal Futurismo che da Dadaismo. Certamente  è  vero

 

        che gli assemblaggi, i polimaterici nascono con  Umberto  Boccioni   e  poi  con   Richard

 

        Huelsenbeck e tanti altri, ma in un secolo sono tante le cose che cambiano  e    trascorrono

 

        per cui certamente in sé la tecnica non giustifica alcuna analogia.

 

        E’ vero invece che Sardano lavora sempre nella direzione di una ricerca   figurativa  a  cui

 

        tutto si piega.   E’ uno  che  mette  in  ordine le idee  attraverso   quest’interferenza tra  gli

 

        oggetti d’uso, fra cui suoi amati dischi da smerigliatrice, o anche con  materiali  che  tutto

 

        sommato nella nuova vita artistica finiscono col perdere ogni  riconoscibilità di un tempo.

 

        Non è un cantore del mondo meccanico, il suo futuro e dolce e colorato, la  sua  arte   non

 

        ha asprezze di sorta ma propende a colori zuccherini, a manipolazioni  e   interventi quasi

 

        da altra pasticceria. Sembra che nei lavori degli ultimi due anni prenda  forma una poetica

 

        neobarocca in cui si accentua una torsione della forma, un aggrovigliamento  dei materiali

 

        che seguono morbide tensioni,  sinuose   traiettorie  che   portano   a se stesse.   Credo che

 

        questa caratteristica dell’artista vada   un pò  enfatizzata   altrimenti  si  rischia  sempre  di

 

        di ricorrere alla spiegazione biografica   della  sua  opera,  cioè  alla  sua   radice operaia e

 

        quindi   al   ribaltamento   da  lui  operato  attraverso  l’arte  degli   strumenti  di  lavoro in

 

        strumenti di comunicazione.   Mi  preme  invece  sottolineare   l’assoluta  gratuità  del suo

 

        lavoro, cioè la sua pertinenza alle sfere della creazione e non   della  sociologia.   Non  c’è

 

        nessun senso nei suoi lavori se non esattamente come sono fatti,   il  tempo  impiegato,  le

 

        associazioni cercate di questi piccoli monumenti all’infinito. E proprio  come nella  logica

 

        barocca non solo i materiali sono portati   oltre  i  loro  limiti   funzionali   e di  pregnanza

 

        visiva,   ma  hanno  anche  un  limite  interno  che  viene  messo  alla prova.   La regola di

 

        Sardano.   E’  una  sua  strada  personale  che  non  ha nessuna  intezione    di porsi in  una

 

        dimensione storica e né tantomeno storicistica.

 

        L’idea di futuro che ne può scaturire è effimera, non ha radici nel suo  linguaggio.  La sua

 

        meccanica è decorativa, non vuole anticipare qualcosa ma vuole porsi solo   come visione

 

        interiore. Non rappresenta qualcosa se non se stessa, non si vuole creare una   super-realtà

 

        di alcun tipo. Anzi alla fine se si guarda bene, Sardano ha una spiccata    propensione  per

 

        una combinatoria infinita e ricorsiva. Spesso i simboli componenti tornano   più volte con

 

        diverse colorazioni e assumendo delle  posizioni,  concettuali   e  non   solo  compositive,

 

        differenti.  E’  una  combinatoria,  è  un  gioco e  come  tutti i giochi si  vorrebbe che non

 

        finissero mai.

 

        La meccanica, i suoi riflessi, le sue parti minute e  frammentarie  viene   quasi  superata e

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

        ironizzata in una sorta di rivoluzione   umanistica  contro  la  tecnica.  Ha   scritto   con  la

 

        consueta intelligenza Pierre Restany a proposito dei lavori precedenti: “Queste  macchine

 

        umanizzate, saturate, di contrassegni sensibili, non sono elementi folcloristici. Impongono

 

        rispetto perché segnalano, attraverso i loro quadranti, i  loro dischi, le loro  rose  dei  venti

 

        la presenza della sostanza-chiave della comunicazione,  l’energia   cosmica,   qull’energia

 

        vitale di cui essa  sono  gli attrattori.   “E  proprio  questa  energia  è    l’uomo,   sempre  e

 

        comunque, con la sua consapevolezza,  la sua capacità di far diventare  gioco le cose serie.

 

        Del resto le opere multimediale  di   Vito  Ssardano   hanno  un’interattività    concettuale,

 

        vogliono sorprendere e interessare, senza però perdere l’aspetto  da giocattolo   sofisticato

 

        e intelligente.

 

        Hanno le caratteristiche una sorta  di   primitivismo  attualizzato,    richiamano   immagini

 

        totemiche   apparirebbero  fortemente   perturbanti   soprattutto   in  contesti urbani o  non

 

        deputati strettamente all’esposizione artistica. All’interno di una  galleria d’arte diventano

 

        troppo “semplicemente” cose strani e particolari, ma un loro uso da Public art  nei contesti

 

        quotidiani  per  le  strade  e  piazze   riuscirebbero   a  colpire  ancora  di più  perché fanno

 

        interrogare sulla loro funzione, sulle domande che suscitano. Sono ibridi che  vivono nello

 

        spazio  intermedio  tra  la vita e l’arte, tra il gioco e  le  necessità   esistenziali   legate  alla

 

        creazione   continua,   alla  proposta  del  proprio  universo  personale come   metafora del

 

        mondo.   Del  resto  vanno   evocati   sia  il   ludico   che  un   senso   neo-barocco    molto

 

        contemporaneo e sempre vicino alle dinamiche sociali attuali.

 

        Vito Sardano gioca e fa giocare il suo pubblico, sapendo di farlo  e  dando   un  contenuto

 

        comunicativo al  suo  lavoro.   La  meraviglia  non  è  fine a  se  stessa,  anzi    l’esibizione

 

        artigianale dei materiali ha la funzione di avvicinare il pubblico,di accostarlo  all’elemento

 

        tecnologico inserito nella struttura. E’ quindi una tecnologia leggera, quasi  soffice,  anche

 

        se la sua natura e le sue problematiche restano inalterate.

 

        I recenti lavori in cui l’artista usa delle corde bianche e nere sembrano   aprire  una  strada

 

        ancora più rivolta ad un mondo complesso,  ma  anche  maggiormente   evocativo,  che  si 

 

        agita  e  si  muove  in  base  un  modo  sempre  più  organico.   Sono  anche una   memoria

 

        marinara  dei  nodi,  dei  percorsi in cui forma,   abilità  e  sapienza   tramandata,   vanno a

 

        sondare l’esperienza dello  spettatore  e  a  determinare  delle  possibilità  di    associazioni

 

        mentali più stratificate.

 

        Anche l’abbandono di titoli di tipo narrativo è funzionale a portare lo spettatore a  contatto

 

        con il lavoro interamente con la sua complessità.   In  questo  senso  l’evoluzione  continua

 

        e  una  spiccata  esteticità  dei   lavori   contribuiscono  ad  una  loro  funzione  più  dolce e

 

        maggiormente libera da retaggi ideologici o da filosofie anti scientifiche sempre in agguato.

 

        Sardano   vuole  fare  arte e  basta,  il che sembra già sufficiente senza ricorrere scomodare

 

        dietrologie o  sconfinamenti  sempre possibili  ma mai gratuiti.   La  felicità  dell’opera,  la

 

        libertà dell’artista  di  piegare le  forme  alla loro  in/verosimile  diversità,  può  finalmente

 

        concedere qualcosa al senso estetico, che alla fine è l’unica qualità indispensabile che ogni

 

        opera d’arte dovrebbe avere.

 

        Valerio Dehò Bologna, Novemre 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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